Immagine del film "Kjærlighet" (Love) (Credits: Motlys K1)

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I film più belli della Mostra del cinema di Venezia 2024

Non vorremo essere in Isabelle Huppert in questi giorni. A chi assegnerà il Leone d’oro l’austera presidentessa di giuria?

La Mostra del cinema di Venezia 2024 sta per chiudersi ed è tempo di bilanci. La qualità dei film in concorso: «pas mal», direbbero i francesi, ma senza grandi picchi, come capita spesso nelle ultime edizioni del festival lagunare. Tra i chiacchiericci di sala, qui al Lido, è capitato però di sentire da colleghi giornalisti una grande verità che più o meno fa così: «Tutti qui cercano il film capolavoro ma partendo con questo spirito si rimarrà sempre delusi». E forse è vero. Forse non dovremmo cercare come rabdomanti assetati solo coup de foudre e capolavori, che in quanto tali in effetti dovrebbero essere rari, e lasciarci carezzare da film validi che raccontano i sogni, la vita, la disillusione e intanto portano lontano.

Ecco i film più belli di Venezia 81, secondo noi, tra quelli visti (soprattutto del concorso principale e della sezione Orizzonti). Quelli che portiamo nel cuore, come bella eredità di una nuova maratona di proiezioni, incontri, visioni.

Kjærlighet (Love) di Dag Johan Haugerud

E finalmente è arrivato, ultimo proiettato tra quelli del concorso principale, il film che racconta la vita come vorrei sentirla narrata. Che commuove, nella sua profonda umanità e nella capacità di indagare le sfumature dell’animo umano. Che apre l’interpretazione dell’esistenza a strade innumerevoli, anche meno convenzionali.

Film norvegese, fa parte della trilogia Sex, Dream, Love, il cui primo capitolo Sex è stato presentato a febbraio scorso alla Berlinale. Love si interroga sull’amore e sulla libertà sessuale, sulla disparità delle aspettative sociali nei confronti delle donne, su omosessualità e relazioni.

Film di parole più che di immagini, ha però in quelle parole tanta gentilezza, speranza, possibilità. Stupendi i personaggi protagonisti, l’urologa di mezza età (interpretata da Andrea Bræin Hovig) e il giovane collega infermiere (Tayo Cittadella Jacobsen). «Sei sempre così gentile?», «Sì, la vita è così breve». La sceneggiatura è un bel regalo firmato dallo stesso regista Dag Johan Haugerud.

Immagine del film "The Brutalist" (Foto: Biennale di Venezia)

The Brutalist di Brady Corbet

A inizio festival e prima di entrare in sala Tre Brutalist è stato il film che ho odiato di più a livello aprioristico: 215 minuti di durata, ovvero 3 ore e 35 minuti, un’infinità! E invece eccomi qui, come i tanti al Lido, a metterlo tra i film più belli di Venezia 81.

Girato in pellicola 70 mm, significativo valore aggiunto, racconta 30 anni della vita di un architetto geniale e visionario interpretato da Adrien Brody, ebreo ungherese sopravvissuto ad Auschwitz. Non perdendo mai ritmo, grazie a un’interpretazione potente di Brody ma ancor più di un sorprendente Guy Pearce, che incarna il suo magnate, The Brutalist è una storia di traumi, di capitalismo, di architettura. Il dolore trova strade disparate, ora nell’oppio, ora nella malattia, ora nell’arte e allora, in quest’ultimo caso, puoi tradursi in pregnante meraviglia.

L’americano Brady Corbet nel 2015 vinse il Leone del futuro proprio a Venezia per il suo lungometraggio d'esordio The Childhood of a Leader - L'infanzia di un capo, che fu presentato sotto Orizzonti. Era nato un regista da tenere d’occhio. Non a caso ora è in corsa per il Leone d’oro.

Immagine del film "Ainda estou aqui" (Credits: Alile Onawal)

Ainda estou aqui (I’m still here) di Walter Salles

Una stretta calda cinge il cuore ripensando ad Ainda Estou Aqui (I’m still here) e al coraggio pieno di luce di Eunice Paiva e all’eroismo di Rubens Paiva.

Siamo tristemente abituati a sentir parlare di desaparecidos e dittatura argentina, meno di quella brasiliana. Il regista di Central do Brasil e I diari della motocicletta ci porta là, nel 1971, a Rio de Janeiro, quando l’ingegnere ed ex deputato di centrosinistra Rubens Paiva vive gioiosamente con la sua nutrita famiglia, prima di venire prelevato per un interrogatorio, senza più far ritorno a casa.
Salles usa toni vivaci, non cade mai nel pietismo, racconta la vita, l’intensità dei rapporti, la forza delle scelte.

È pulsante ed emozionante la performance di Fernanda Torres, lei tanto esile eppure così torreggiante. Una lezione di vita. Un film da vedere per abbeverarci della luce forte della sua Eunice.

Immagine del film "Vermiglio" (Foto: Biennale di Venezia)

Vermiglio di Maura Delpero

Vermiglio è uno dei cinque film italiani in corsa per il Leone d’oro e quello che più degli altri sorprende. All’inizio può esserci qualche resistenza verso il suo ritmo naturalistico lento ma poi, quando si entra nella sua poetica delle piccole cose, è una sensazione bella trovarsi lì dentro.

Tommaso Ragno, capofamiglia e maestro in un paesino di montagna alla fine della Seconda Guerra mondiale, è a una delle sue interpretazioni più sfaccettate.

Mentre le stagioni scorrono e il conflitto scivola via, con occhi empatici e malinconici osserviamo aspirazioni spezzate e sogni delle figlie della folta famiglia raffigurata e il destino che decide per loro. Un’elegia sulla montagna e sull’Italia che fu, che sa di antico e di universale al contempo.

Immagine del film "Marco" (Foto: Biennale di Venezia)

Marco di Aitor Arregi e Jon Garaño

Dalla sezioni Orizzonti, una storia divertente e sconcertante, ispirata a un’incredibile storia vera. Quel Marco del titolo è Enric Marco Batlle, un sindacalista spagnolo che ha ricoperto il ruolo di presidente dell'Amical de Mauthausen in Spagna, in quanto sopravvissuto ai campi nazisti. Grande oratore in conferenze e presso le scuole, in cui raccontava le sue esperienze come deportato a Flossenbürg, in verità si rivelò… un bugiardo. Non fu mai rinchiuso in un campo di sterminio.

Marco è la storia di un deportato che non è mai esistito, la storia della vita di un uomo che per anni è riuscito a mantenere, di fronte all'opinione pubblica e alla sua stessa famiglia, una menzogna difficile da immaginare. Lo interpreta con convincente istrionismo e grande abilità oratoria Eduard Fernández.

Immagine del film "Maria" (Credits: Pablo Larraín)

Maria di Pablo Larraín

A sorpresa, mi ritrovo a portare via dal Festival, tra i film più graditi, anche Maria di Pablo Larraín, il ritratto degli ultimi giorni di vita di Maria Callas affidato ad Angelina Jolie. A sorpresa perché Maria a volte flirta con la noia. Eppure è riuscito ad attecchire, dentro, con la sua seducente eleganza formale e con la sceneggiatura incisiva di Steven Knight, fatta da frasi da incorniciare.

Anche se è impossibile riconoscere in Jolie la Callas, l’attrice americana, nel suo portamento sicuro e vulnerabile al contempo, riesce a restituirci l’idea di grandezza e umanità di Maria.

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