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January 01 2021
Si chiude un anno difficile. A conti fatti, le sale cinematografiche in Italia sono state aperte solo per sei mesi circa. Era anzi cominciato più che bene il 2020, con buonissimi incassi (anche grazie a Tolo Tolo di Checco Zalone), per poi imbattersi nella prima chiusura causa Covid del 23 febbraio, per le sale del Nord, dell'8 marzo per il resto d'Italia. Poi la boccata d'aria, improvvisa, concessa dal 15 giugno, con una riapertura quasi inaspettata che non tutte le sale hanno potuto cogliere: l'estate è il periodo dell'anno meno provvido per i cinema italiani. E, chi ha riaperto, ha avuto incassi all'osso. Quindi la speranza accesa dalla Mostra del cinema di Venezia e la seconda inevitabile chiusura, dal 25 ottobre.
Nonostante questo balletto di chiusure e aperture, di titoli annunciati poi messi in standby poi finiti in piattaforma digitale o forse no, pure il 2020 ha saputo regalare qualche film da ricordare, anche grazie a distributori coraggiosi che, nei pochi mesi di cinema aperti, hanno comunque puntato sulle sale. Ecco i film migliori, tra quelli usciti in Italia nell'anno, secondo me.
Titolo originale: Κυνόδοντας Kynodontas, Grecia. È un film del 2009 (vinse la sezione Un certain regard al Festival di Cannes), ma in Italia è arrivato solo quest'anno. Con i toni gelidi e pungenti a cui il regista greco ci ha abituato, una metafora della tirannia e di come soggiogare i popoli, manipolandoli. Una storia distopica e dissacrante che disorienta e lascia attoniti. Un padre di famiglia (Christos Stergioglou), rispettato dai tre figli (Angeliki Papoulia, Mary Tsoni, Hristos Passalis), che non hanno neanche nome, è l'autarca che li tiene confinati nel recinto di casa per «salvarli» dai pericoli del mondo di fuori. Ecco così che, nell'educazione ingannatrice propinata ai tre ragazzi, Fly me to the moon di Frank Sinatra diventa una canzone cantata dal nonno per osannare la vita domestica e l'obbedienza ai genitori, e gli aeroplani che volano in cielo sono dei giocattolini che, se cadono nel giardino, sono da collezionare.
Titolo internazionale: Memories of Murder, Corea del Sud. Altro film non targato 2020 ma 2003 e arrivato solo ora in Italia, dopo il successo di Parasite, dello stesso regista sudcoreano. Satira sociale e commedia si mescolano in questo crime dove le tracce di un presunto killer seriale di donne si perdono tra false piste, interrogatori sanguinosi, incompetenza dei poliziotti coinvolti. Amaro e realistico: buone volontà e operosità spesso affondano nell'inconcludenza. È ispirato alla storia vera del primo assassino seriale coreano conosciuto, attivo fra il 1986 e il 1991 a Hwaseong, nella provincia di Gyeonggi.
Paese di produzione: Usa, Regno Unito. Fango, cadaveri marci di soldati, carcasse di cavallo, scheletri di abitazioni divorate dalle fiamme. E due giovani militari (George MacKay e Dean-Charles Chapman) in corsa contro il tempo e contro la morte. Lasciate le produzioni pop recenti degli 007 Skyfall e Spectre, Mendes torna al film d'autore con un racconto di guerra e di sopravvivenza che è un'esperienza immersiva ed emozionante, ispirato ai racconti della prima guerra mondiale del nonno Alfred. Ha vinto tre Oscar tecnici (fotografia, effetti speciali, sonoro).
Titolo originale: Dylda, Russia. Uno di quei film che, in tempi di cinema chiusi e piattaforme digitali, fa sentire così tanto la mancanza della sala e del grande schermo, che esalta i colori maestosi e pittorici di questo dramma russo sulle ferite psicologiche (e non solo) lasciate dalla guerra. I verdi sono poderosi, accanto a rossi da quadro. E poi l'incarnato diafano della spilungona, la timida e altissima ragazza bionda protagonista (l'esordiente Viktorija Mirošničenko), che ogni tanto si blocca in stati catatonici. Straziante la scena con il piccolo Pashka (Timofej Glazkov), il figlio dell'amica (Vasilisa Perelygina). La seconda parte incede forse troppo sulla morbosità del rapporto tra le due donne.
Paese di produzione: Usa. Un'altra piccola perla della Disney Pixar: un cartoon che fa ridere, anche commuovere, e riflettere sul mistero della vita. Con quella sapienza di tocco, che è leggerezza e profondità allo stesso tempo, tipica degli studios d'animazione. Non tocca i livelli massimi di Inside Out, che giocava con le emozioni umane, ma ne ricorda l'intelligente mix di ingredienti, questa volta all'esplorazione dell'anima umana e della «scintilla», il senso della vita, che forse spesso non si trova solo perché non c'è. È nella vita stessa.
Titolo originale: After the Wedding, Usa. Remake al femminile dell'omonimo film danese del 2006 di Susanne Bier, ha in Michelle Williams il cuore pulsante che rende tutto plausibile e fa dimenticare alcune perplessità di trama. Non ha bisogno di parlare: i suoi sguardi racchiudono il marasma interiore di scelte difficili. Quando torna dall'India, dove aveva trovato rifugio ai suoi fantasmi, ha in Julianne Moore, altra colonna portante, la rivale-amica che le impone un'altra strada. Forse quella che aveva smarrito.
Paese di produzione: Usa. Audace satira contro la guerra e contro l'odio, con idee originali e irriverenti: il piccolo Jojo (Roman Griffin Davis), fan del regime nazista, ha come miglior amico immaginario… Adolf Hitler, in versione buffonesca (interpretato dallo stesso regista). La mamma (Scarlett Johansson), invece, sotto sotto ha altri ideali. Una commedia dentro il dramma. Tra scontri di toni che lasciano storditi, si insinua la speranza, che è tutta nella scatenata danza finale sulle note di Helden di David Bowie (versione tedesca di Heroes) tra le macerie di Berlino. E nella frase di chiusura di Rilke: «Lascia che tutto ti accada: bellezza e terrore. Si deve sempre andare: nessun sentire è mai troppo lontano».
Paese di produzione: Regno Unito, Francia, Belgio. Il caro amato Ken Loach inquadra ancora una volta le storture colpevoli della società, che incurvano le spalle degli ultimi. Un padre di famiglia (Kris Hitchen) trova lavoro come corriere di una grande ditta di consegne: turni massacranti, chilometri e chilometri sul furgone che è stato costretto a comprarsi, orari di consegna da rispettare alla lettera e una bottiglia di plastica vuota per poter urinare a bordo così da non perdere tempo. Loach racconta con passione e umanità, mettendo spalle al muro certe scelte politiche e imprenditoriali, dall'alto, che si trasformano in tragedia nei piani bassi.
Titolo internazionale: Long day's journey into night, Cina. Opera seconda del cinese trentunenne Bi Gan, è il film più complicato e raffinato dall'anno, un mistery sfacciatamente ambizioso, in cui è facile perdersi, ed è forse più facile abbandonarsi. Tra presente, passato e sogno, il protagonista (Huang Jue) torna a Kaili, nella provincia del Guizhou, a dodici anni da una relazione che è svanita ma che, tutte le volte in cui è a un passo da dimenticare, ritorna. E, forse, a dodici anni da un omicidio.
Paese di produzione: Francia. Un polar implacabile nel suo racconto buio e lineare, così aderente al vero. A Roubaix, la sera di Natale, un commissariato di polizia vive la sua routine di denunce, arresti, indagini. Il capo è un carismatico e umanissimo Roschdy Zem (César per questa interpretazione). E poi un delitto e due tossiche dalla relazione ambigua come testimoni: Léa Seydoux, torbida e fredda, e Sara Forestier. Desplechin trascende il thriller per esplorare gli abissi dell'animo umano.
Paese di produzione: Italia. Solido e denso, come i colori ad olio spalmati sulla tela, è il ritratto che Diritti fa del pittore Antonio Ligabue. Un film che parla alla testa e agli occhi, più che al cuore, concedendo anche momenti poco vibranti, ma che ci offre l'ennesima interpretazione da ricordare di Elio Germano, che dell'artista prende addosso incurvature fisiche, bruschezze caratteriali, manie. Con Orso d'argento per il migliore attore vinto a Berlino e dedica a tutti gli storti e a tutti gli sbagliati.
Paese di produzione: Italia. Nera e cattivella, è questa favola favolaccia, come titolo non mente. Nella periferia romana, attorno a una famiglia apparentemente normale che aspira a una certa affermazione sociale (casa indipendente, giardino, piscinetta), ruotano altre famigliole: tutte, in verità, insoddisfatte. I fratelli D'Innocenzo si divertono a giocare con la camera, con riprese e tagli inconsueti, tutti piccoli spilli conficcati in una trama che punzecchia. Fino al finale che è davvero nero e più che cattivello. Anche qui Elio Germano c'è.
Titolo originale: Never Rarely Sometimes Always (Usa). Terzo lungometraggio della regista indie quarantunenne, Orso d'argento gran premio della giuria al Festival di Berlino. Poche parole, lunghi silenzi, primi piano intensi. E tutto il dolore taciuto di un'adolescente rimasta incinta (Sidney Flanigan) in quel «Mai, raramente, a volte, sempre», risposte a scelta multiple di domande difficili tipo «Il tuo partner ha rifiutato di indossare il preservativo?», «Il tuo partner ti ha fatto fare sesso quando non volevi?». E intanto la camera rimane ferma sul viso di lei, per interminabili amarissimi attimi.
Paese di produzione: Italia. Piccolo grande film rivelazione, opera prima che si lascia vivere con intensità e coinvolgimento pieno (tratta dal romanzo di Catena Fiorello). La Sicilia, l'isola di Favignana, negli anni '60, selvatica e traboccante, e qui una ragazzina (Marta Castiglia), lasciata in Italia dai genitori migrati all'estero, che al seguito della nonna dura e brusca (Lucia Sardo) cerca emancipazione, tra sussulti ribelli e sguardi di profondo reciproco sentirsi. La parte finale spiazza ed è un pugno al petto. Un po' stridente il balzo nel presente. Tanto tantissimo cuore, in Picciridda, ma anche mestiere e paesaggi in cui abbandonarsi.
Paese di produzione: Austria, Regno Unito, Germania. Distopia algida che nel rosso cremisi dei fiori subdoli protagonisti, creati in laboratorio, ha il suo fascino ambiguo, soprattutto estetico e senz'altro riuscito, ma anche psicologico, meno andato a segno. Little Joe più che un buon film è un film affascinante, più promettente che compiuto. Però ha il merito di tenerti lì, a volte contrariata ma sempre in attesa, per conoscere l'epilogo. Emily Beecham meritatamente premiata come migliore attrice al Festival di Cannes 2019.
Paese di produzione: Cile. Non è il Larraín migliore. Ema latita assai nella trama, che non si capisce che strada voglia prendere, e per lo più delude, ma ha coreografie eccezionali e una forte carica sensuale affidata alla energetica protagonista Mariana di Girolamo, persa nel suo gioco distruttivo di colori, musica e danza.
Titolo originale: Palm Springs, Usa, Hong Kong. Versione innovativa e colorata di Ricomincio da capo del 1993, non è l'ennesimo film stanco che si avviluppa su un loop temporale, con giorni che si ripetono e ripetono e poca verve. Il 9 novembre, a Palm Springs, in una California assolata da pantaloncini corti e piscine, per qualcuno è il 9 novembre per sempre. In una sorta di Purgatorio, l'eternità è fatta di scenari desertici, buffet da matrimonio, balli e bicchieri, discorsi strampalati o esplosivi lanciati agli sposi. Con Andy Samberg e Cristin Milioti. Un po' di necessaria leggerezza.
Titolo originale: Shooting the Mafia, Irlanda, Usa.Letizia Battaglia, pur apprezzandolo, ha mosso qualche critica al documentario: racconta anche parti intime dei lei che non si aspettava di ritrovare lì. Ma a noi piace andare oltre le sue foto magnifiche e cercare di conoscere la donna, quella leonessa di pancia, testa e cuore che correva per le strade di Palermo anni '70, prima fotoreporter italiana, per raccontare la brutalità della mafia e i morti ammazzati. La regista britannica, da sempre impegnata dalla parte delle donne, rende un affettuoso tributo a una donna eccezionale.
PS: Non ho visto tutti i film usciti in sala o in piattaforma in Italia nel 2020. Quando li recupererò, se meriteranno, saranno inseriti nell'elenco.