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September 28 2012
Ci vorrebbe proprio un genio della descrizione dei peggiori malesseri italiani come Alberto Sordi, oggi, per raccontare in un film la storia di un cittadino vessato dal fisco. Se fosse vivo, Sordi userebbe di certo il drammatico registro di toni impiegato in Detenuto in attesa di giudizio per descrivere l’ultimo dei suoi piccoli eroi borghesi, ingabbiato, inerme e schiacciato da una gigantesca macchina da tortura: il contribuente vessato dallo Stato, pronto a sanzionare ogni presunta mancanza con mezzi sproporzionati.
Un eroe, come dimostrano le cinque storie raccolte da Panorama, costretto a vivere esperienze a dir poco kafkiane: per esempio pagare una sanzione anche se una sentenza ha stabilito che hai agito correttamente; o essere costretto a chiedere prestiti in banca per mandare avanti l’impresa in attesa di incassare un credito d’imposta già riconosciuto; o, peggio ancora, dovere chiudere l’azienda perché non ti saldano un appalto pubblico, ma intanto il fisco ti pignora i conti correnti perché non paghi le tasse.
Comportamenti degni di uno Stato canaglia. Del resto, per avere un’idea dell’abisso di civiltà fiscale che ci separa dal resto d’Europa, basta dare un’occhiata ai dati raccolti dall’associazione Contribuenti.it. In Italia il fisco azzanna i contribuenti anche quando non deve: da noi il 68 per cento delle controversie è vinto da cittadini o imprese finiti nel mirino di un accertamento, mentre in Francia solo il 4 per cento dei ricorsi contro il fisco va a buon fine. Per ottenere giustizia, gli italiani aspettano poi in media oltre 10 anni e devono comunque versare in anticipo allo Stato un terzo della presunta evasione. In teoria si può chiedere al giudice di sospendere questo iniquo versamento, ma difficilmente la richiesta viene evasa in tempo. Il contribuente sa poi in partenza che, se anche i giudici tributari gli daranno ragione, lo Stato avrà 5 anni di tempo per restituirgli quanto ha versato. E sa anche che, grazie alla discrezionalità concessa ai giudici, dovrà quasi sempre versare di tasca sua le proprie spese legali pure in caso di vittoria, mentre, se sarà sconfitto, dovrà inevitabilmente pagare le sue e quelle dello Stato.
«Sì, il nostro sistema fiscale è oppressivo» dice Livia Salvini, docente di diritto tributario alla Luiss di Roma, «anche perché prevede una serie di dichiarazioni e di scadenze maggiore che in altri paesi. In più, nuovi adempimenti si aggiungono spesso a ridosso delle scadenze già previste, con
spiegazioni tecniche complicatissime».
Un altro capitolo dell’oppressione tributaria segnalato da Salvini è quello dei poteri dell’Equitalia, quasi un moderno sceriffo di Nottingham contro il quale non c’è neanche una foresta di Sherwood dove nascondersi. L’Agenzia delle entrate chiede, l’Equitalia riscuote. Per fortuna non brucia le case, come faceva l’esattore di Giovanni Senzaterra, però arriva a pignorarle. E l’armamentario è ricco: «Oltre alle ganasce fiscali, come l’ipoteca sulla casa» ricorda la tributarista «si aggiungono gli aggi di riscossione, che si moltiplicano in caso di mora». E spesso non c’è coordinamento tra Agenzia ed Equitalia: «Capita troppe volte» racconta Salvini «che il contribuente raggiunga un accordo con la prima, ma che la seconda non lo sappia e proceda lo stesso. Per un’azienda il pignoramento dei conti correnti è un fatto gravissimo, perché un minuto dopo la banca le revoca tutti i fidi».
Ed è vero che l’Agenzia delle entrate, dal 2008 diretta da Attilio Befera, negli ultimi anni ha moltiplicato i risultati della lotta all’evasione, però Contribuenti.it stima che le verifiche fiscali da noi abbiano consentito di recuperare appena il 10,4 per cento dell’evasione accertata, contro il 98 per cento del Regno Unito. Al contrario, l’Italia è stata spesso censurata dall’Unione Europea perché per un rimborso tributario ci vogliono in media 14 anni e 3 mesi, contro i 12 mesi del resto del continente.
Ma perché lo Stato ci considera tutti evasori e i contribuenti si sentono vessati da un fisco insaziabile? «La ragione è da individuare nelle nostre radici storiche» afferma il tributarista Giuseppe Marino, docente alla Statale e alla Bocconi di Milano: «Noi siamo un popolo di individualisti, abbiamo sempre guardato con diffidenza alle istituzioni. Dall’altra parte della barricata, chi lavora per lo Stato, sapendo con chi ha a che fare, non può che usare strumenti canaglieschi».
A questo doppio pregiudizio, secondo Marino, si aggiunge il fatto che «l’evasione è lo specchio dell’articolazione dell’economia italiana, polverizzata in una miriade di piccole imprese». Il tributarista sottolinea che le grandi aziende possono cercare di eludere il fisco, grazie all’interpretazione cavillosa delle norme, «ma non fanno massa come quei 5,8 milioni di partite iva che reggono il nostro prodotto interno lordo». Una situazione che genera altri interrogativi: «Ha senso» si chiede il tributarista «investire il lavoro di tre finanzieri, con un costo di 150 mila euro l’anno, per scoprire l’evasione da 20 mila euro di un artigiano? È una battaglia contro i mulini a vento».
Come si esce da questo labirinto? Serve una riforma epocale? «A giudicare dai risultati delle riforme degli ultimi 15 anni, direi proprio di no» risponde il fiscalista. «Il principio gattopardesco del cambiare tutto per non cambiare nulla non serve più. Meglio attuare il vecchio motto di Luigi Einaudi ed esercitare la nostra fantasia su pochi piccoli correttivi». Fra le proposte di Marino c’è quella di dare rango costituzionale alla legge 212 del 2000, lo Statuto dei diritti del contribuente, «troppo spesso derogata, o del tutto ignorata, dal fiume di norme tributarie che ogni anno ci travolge».
«Sono almeno 60 mila all’anno» tuona Vttorio Carlomagno, commercialista, professore universitario e presidente dell’associazione Contribuenti.it. «Perfino Befera ammette che il sistema è troppo complesso. È quasi impossibile non fare errori, senza l’assistenza di un professionista». Eppure, l’articolo 10 dello Statuto tutela la buona fede del cittadino se c’è incertezza sull’applicazione della norma, mentre l’articolo 3 stabilisce che i termini di prescrizione non sono prorogabili. «Tutti principi costantemente violati» protesta Carlomagno: «Se l’Agenzia segnala l’esistenza di un presunto reato, i termini di prescrizione si raddoppiano e il contenzioso tributario si ingolfa».
«Il contribuente, in Italia, è sempre visto come un suddito» afferma Carlomagno. E ricorda che gli 8.600 ultracentenari italiani ogni anno rischiano una sanzione da 2 mila euro perché allo scadere del secolo il loro codice fiscale, dove la data di nascita è indicata da due cifre, risulta sempre errato ai controlli. Al contrario, chi compie 100 anni nel Regno Unito viene ricevuto dalla regina e da quel momento non paga più le tasse.
Ma non basta. Carlomagno disegna uno sfondo surreale: «Se un cittadino non rispetta i tempi per impugnare un provvedimento tributario, quell’atto diventa definitivo anche se per caso è illegittimo». E ricorda che «a Roma, Napoli e Milano, il comune ha appena aumentato indiscriminatamente le rendite catastali. Da questo momento chi non ha impugnato entro i termini la valutazione, che a volte ha superato il 400 per cento, per tutta la vita pagherà un’imposta molto più cara».
Carlomagno denuncia anche i rischi che si corrono con il redditometro. Oggi si basa su una decina di voci, ma i rischi aumenterebbero a dismisura se entrasse in vigore il nuovo standard, basato su 100 voci. «Trasformerebbe ogni italiano in un evasore» secondo il tributarista «perché i computer sono stupidi e non possiamo delegare loro funzioni accertative, attribuendo loro più valore di una verifica della Guardia di finanza: così si fanno più accertamenti, ma in quattro casi su cinque quelli col redditometro non risultano congrui».
Così diventa un azzardo anche regalare un’auto a un figlio: «È probabile che scatti un’indagine fiscale sul ragazzo, sospettato di avere un lavoro in nero per mantenere la vettura. Ma di questo passo si arriverà a tassare anche la paghetta ai nostri figli».
MA AL FISCO NON BASTA UNA SENTENZA
La storia di Roberto Saitta, 52 anni, commerciante di elettronica a Gravellona Toce (Verbania), dimostra che neanche una sentenza ti salva dal fisco. Nel 2009 Saitta aveva comprato materiale per 250 mila euro con regolare fattura da un fornitore e poi lo aveva rivenduto, sempre con fattura. «Purtroppo» racconta «la Guardia di finanza scoprì che il fornitore, con cui avevo sempre lavorato senza problemi, non aveva versato l’iva. Quando controllarono i miei conti, sebbene avessi mostrato tutta la documentazione, mi fu contestato un utile non dichiarato di 260 mila euro». Sostenuto dall’associazione Impresecheresistono, Saitta dopo 2 anni è stato assolto dal Tribunale di Verbania «per non avere commesso il fatto». Dice l’imprenditore: «Tutto questo mi è costato però 10 mila euro di avvocato e altri 10 mila di commercialista. Ma l’Agenzia delle entrate mi ha continuato a chiedere l’iva che avevo versato. E il commercialista mi ha convinto ad accettare un pagamento a rate di quei 50 mila euro perché mi sarebbe costato meno di 10 anni di vertenze legali». Così Saitta pagherà 72 rate da 1.500 euro al mese. «Posso farlo perché la mia attività va ancora
bene, ma se andassi a lavorare in fabbrica guadagnerei di più».
L'IVA KAFKIANA
Produrre formaggi di qualità vuole dire mettere in preventivo un inevitabile ritardo nei rimborsi dell’iva: lo sa bene, e a sue spese, Nicoletta Merlo, amministratore delegato della Mauri, casa valtellinese con un centinaio di dipendenti e 35 milioni di fatturato. «Noi compriamo latte italiano pagando il 10 per cento di iva e altri beni necessari alla produzione con l’iva al 21 per cento. Però, dato che vendiamo il formaggio con il 4 per cento di iva, abbiamo diritto a un rimborso e siamo sempre in credito d’imposta. Ancora di più con il 30 per cento della nostra produzione che va all’estero, in paesi dove non si paga l’iva» spiega Merlo. Al danno, però, si somma la beffa: perché sul credito d’imposta, per garantire che la richiesta allo Stato sia corretta, l’azienda deve comunque accendere una fideiussione bancaria. «Io sto ancora aspettando dallo Stato 200 mila euro di rimborsi del secondo trimestre 2010» dice Merlo «e sommando gli altri trimestri fino a oggi si supera 1 milione di euro». Intanto ci sono da pagare fornitori e dipendenti: «Quindi dobbiamo chiedere soldi alle banche e pagare gli interessi». Insomma, «lo Stato ci chiede di essere virtuosi, ma lui è un po’ ladro, no? Quei soldi sono nostri: che aspetta a ridarceli?».
L'AGRITURISMO «ASSEDIATO»
«Voglio andare dal prefetto di Alessandria e chiedergli di nominare un suo funzionario come amministratore della mia azienda, così mi dimostra come si può fare impresa pagando tutte le tasse e sanzioni che mi chiedono e riuscire a guadagnare abbastanza per vivere». Carmelo Miragliotta nel 1989 trasformò in agriturismo un rudere a Bergamasco, nel Monferrato. «Le cose sono andate bene fino a 4 anni fa, quando i costi di gestione sono esplosi» spiega. «Io e mia moglie da allora abbiamo rinunciato allo stipendio; l’unico che lo riceve è mio figlio, che purtroppo ho convinto a lavorare con noi, e lo pago con mesi di ritardo. Ma la cosa peggiore è la quantità di regole da osservare e la processione di questuanti che tutti i giorni mi si presenta: la asl, la Finanza, il veterinario, le guardie provinciali, quelle cantoniere, l’ispettorato del lavoro... Siamo tartassati». Nel 2009 Miragliotta fu assolto dopo avere scritto «Covo di estorsori» sui muri dell’Agenzia delle entrate di Alessandria perché riteneva di avere ricevuto un’ingiusta sanzione fiscale e nel 2010 ha accompagnato fuori dalla sua azienda un funzionario della Siae che voleva fare un controllo. Oggi dichiara di essere pronto «a ribellarsi fisicamente a imposizioni ingiuste».
SE LA MULTA AMMAZZA UN'IMPRESA
Norma Franciosi sognava di fare costruzioni con il suo compagno: «Avevamo poco denaro, ma tanta competenza». Lei geometra e lui artigiano, dal 1995 in pochi anni erano arrivati con la loro azienda a un giro d’affari di 1 miliardo di lire e 15 dipendenti. «Purtroppo i privati non versavano mai il prezzo pattuito e gli appalti pubblici ci venivano pagati con anni di ritardo» racconta Norma. «Abbiamo tirato avanti sino al 2005 arrampicandoci sugli specchi. Lavoravo anche io in cantiere, abbiamo ipotecato la casa, ma ci siamo arresi quando ci è arrivata una cartella esattoriale da 300 mila euro, che sono diventati 600 mila fra sanzioni e interessi. Le banche ci hanno negato i fidi e così è finita». Ora l’azienda è chiusa, fornitori e dipendenti sono stati pagati, la casa è stata pignorata e Franciosi fa la libera professione. Intanto l’Agenzia delle entrate continua a contestarle il suo debito «perché» dice «quelli ti perseguitano finché campi: ma io quei soldi non li ho proprio».
LO STATO CHE COMBATTE SE STESSO
L’acquisto di una caserma della polizia a Napoli, nel 2009, sembrava un ottimo affare alla società romana RBox, che aveva pagato 2 milioni 220 mila euro alla Patrimonio dello Stato, società partecipata dalla Fintecna, del ministero delle Finanze. Andata deserta l’asta con cui l’immobile era stato messo in vendita a oltre 3 milioni di euro, l’offerta della RBox era stata accettata. Tutto regolare, insomma, con un inquilino come la polizia che dava garanzie certe di solvibilità. Peccato che l’Agenzia delle entrate di Roma contesti la congruità del prezzo e decida di sanzionare sia la Patrimonio dello Stato, cioè una costola dello stesso ministero delle Finanze, sia la RBox, perché avrebbero evaso l’imposta di registro su oltre 1 milione di euro. «Così la società acquirente ora è chiamata a pagare quasi 80 mila euro fra imposte, interessi e sanzioni» spiega l’avvocato Angelo Tanzi, dello studio Baldassarri e Tanzi di Roma, che la difende davanti alla commissione tributaria in una procedura che durerà anni. In più, una beffa: la polizia dal primo gennaio 2011 non paga l’affitto per mancanza di fondi.