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February 11 2019
Il catalogo, potrebbe dire il Leporello di Don Giovanni, è questo: dagli scrocconi imbucati nella piccionaia del San Carlo di Napoli alle irregolarità gestionali del Lirico di Cagliari; dalle vertenze dei lavoratori del Carlo Felice di Genova ai tagli al personale del Comunale di Bologna. E poi ci sono i debiti alle stelle del Maggio musicale fiorentino e del Teatro dell’Opera di Roma. L’incapacità di intercettare sponsor del Teatro Verdi di Trieste. E i precari buttati in strada dalla Fenice. Oppure le leggerezze contabili del Regio di Torino, i bagarini della Scala, la finanza creativa dell’Arena di Verona, i regalini del vecchio governo all’Accademia di Santa Cecilia di Roma. Fino ad arrivare alla direzione di sala di stampo mafioso del Teatro Massimo di Palermo e alla corruzione al Petruzzelli di Bari.
Già, la lirica in Italia non ha solo i conti in rosso. Soffre delle stesse patologie della pubblica amministrazione: sprechi, privilegi, sperperi e cattivegestioni. La riforma Melandri, che nel 1996 ha trasformato i teatri lirici da enti di diritto pubblico in Fondazioni private (sottoposte però a tutti i vincoli pubblici), non ha eliminato le vecchie incrostazioni. Anche perché, lo scopo era quello di incentivare l’ingresso di capitali privati, alleggerendo così l’impegno statale. E, invece, oggi le 14 Fondazioni lirico-sinfoniche assorbono ancora un sacco di soldi: 346 milioni di euro, circa 12 milioni in più del 2018. A stanziarli è il Fus, Fondo unico dello spettacolo. E dovrebbero essere ripartiti in questo modo: il 60 per cento diviso in proporzione all’ammontare dei contributi annuali ricevuti dai privati (Art bonus); una seconda quota (30 per cento) ripartita in proporzione all’ammontare dei contributi ricevuti dagli enti territoriali; e un’ultima parte (il 10 per cento) proporzionale in base al totale del Fus.
Nonostante il 60 per cento debba arrivare dai privati, a conti fatti, il governo mette ancora sul piatto un bel po’ di soldi. D’altra parte si tratta dello spettacolo più costoso in assoluto da portare in scena. E sarebbe impensabile che si reggesse con la sola biglietteria. A leggere la relazione parlamentare dei giudici della Sezione di controllo della Corte dei conti, si reggono sulle proprie gambe il Santa Cecilia di Roma, la Fenice di Venezia e la Scala di Milano, che fa numeri di tutto rispetto: 900 dipendenti, un bilancio da 120 milioni l’anno e una programmazione in crescita. «Il 65 per cento del budget», fa notare Milena Gabanelli sul Corriere, «arriva da finanziamenti privati tra sponsor, soci fondatori e ricavi propri, cioè 35 milioni di biglietteria, mentre di 31 milioni è stato il contributo del Fus nel 2017».
Dieci, invece, le fondazioni che non hanno cash privato. Il Verdi di Trieste, per esempio, ottiene solo 344.799 euro di sponsor e vive grazie agli oltre 8 milioni statali e ai 3 della Regione. Il viaggio nella crisi economica e di valori parte proprio da qui. Con Debora Serracchiani che per salvare la Fondazione, dopo i tagli disposti dal governo, chiede soldi ai privati. Inutilmente. A Bologna da un paio di anni a questa parte la parola d’ordine è sforbiciare. Ed è il leitmotiv di un accordo tra direzione e sindacati del gennaio 2017 e che prevede un risparmio sul personale pari a 900 mila euro, in cambio di un taglio di almeno 750 mila sui costi di produzione del Teatro e sulle consulenze. Più tagli per tutti, visto che anche il sovrintendente e il direttore generale devono ridursi progressivamente lo stipendio.
Il Lirico di Cagliari, a leggere la stampa locale, rischia addirittura il commissariamento per uno scontro aperto tra la Fondazione e i dipendenti, ai quali sono stati chiesti indietro quasi 3 milioni di euro. Tutto sarebbe partito da una relazione del ministero delle Finanze molto critica sulla gestione amministrativa e che ha segnalato «gravi irregolarità gestionali» rilevate durante un controllo ispettivo del luglio 2017. In Toscana, se possibile, va anche peggio. Il debito della Fondazione del Maggio musicale fiorentino ha superato i 62 milioni di euro e, nonostante i regali del governo regionale Pd che, nel 2014, ha donato alla Fondazione il Teatro dell’Opera (valore 280 milioni), nel 2018 è risultata l’ente sinfonico più indebitato d’Italia.
Qualche piacere il Pd lo ha fatto anche a Roma, dove all’Accademia di Santa Cecilia, nel cui cda siedono Gianni Letta, Luigi Abete e Franco Bassanini, sono arrivati contributi extra per 125 mila euro grazie al ministero guidato all’epoca da Dario Franceschini. Anche a Genova i vecchi amici del centrosinistra hanno tenuto il Teatro Carlo Felice in linea di galleggiamento, grazie a un contributo straordinario dell’autunno 2017 del Comune sull’orlo del baratro.
A Torino, invece, l’inchiesta giudiziaria sul buco di bilancio del Teatro Regio è finita da poco in archivio: non c’erano manovre truffaldine nei conti, né distrazione di fondi. Ma adesso la palla è passata alla Corte dei conti, che dovrà valutare se ci sono state leggerezze nella gestione e sprechi evitabili. E anche a Roma è la Procura contabile a setacciare i finanziamenti del Campidoglio al Teatro dell’Opera. C’è un fascicolo sulla pioggia di milioni che dal 2008 a oggi è piovuta nelle casse della Fondazione capitolina. Un esposto dell’associazione Acf (Analisi fondi pubblici) ha puntato il dito sulla sproporzione tra i finanziamenti alla Scala, teoricamente prima per prestigio culturale, che riceve dal Comune di Milano una cifra molto più bassa rispetto a quanto entra nelle casse dell’Opera di Roma: 6,7 milioni di euro contro i 15,2 erogati dal Campidoglio. «Ben più del doppio», fanno notare sulle pagine romane del Corriere.
Sulla finanza creativa dell’Arena, invece, indagano ancora i magistrati della Procura di Verona. L’inchiesta sta cercando di accertare se la Fondazione, per appianare una perdita in bilancio, avrebbe venduto a una sua controllata, Arena Extra, quasi 9 mila costumi, 3.850 bozzetti e l’archivio fotografico per sette milioni di euro. Fin qui nulla di strano. Ma si è scoperto che Arena Extra non avrebbe avuto liquidità sufficiente a pagare l’importo. Era solo una trovata contabile? Ma l’indice sull’Arena è puntato ormai da tempo anche sulle indennità, da sempre considerate degli sprechi.
Paola Zanuttini per Repubblica riuscì a infiltrarsi tra le popolane egiziane dell’Aida e scoprì che per quella breve comparsata avrebbe incassato 30 euro netti in più per dover sopportare il caldo, più due indennità per l’esibizione all’aperto. L’indennità «armi finte», invece, veniva applicata a chi era costretto durante la scena a far roteare le spade.
Ma quella delle indennità non è solo una patologia storica dell’Arena. Al San Carlo di Napoli scattava un’indennità «di lingua» quando nel testo c’era anche solo una parola straniera. E c’era perfino l’indennità «di frac» per il maestro. Qui resiste ancora una vecchia prassi che vede, durante l’entr’acte, gli «imbucati» andare a occupare i palchetti vuoti. E se a Napoli si cerca di scroccare l’ingresso, a Milano c’è chi è costretto a strapagarlo: i bagarini fanno incetta di biglietti e poi li rivendono a prezzi da capogiro.
Dal Sud, invece, arrivano storie da Romanzo criminale: a Palermo il direttore di sala del Teatro Massimo, Alfredo Giordano, era un affiliato di Cosa nostra. Ora è un collaboratore di giustizia. Ha accusato boss e gregari ed è stato condannato in primo grado a a sei anni e otto mesi per mafia. A Bari, invece, al Petruzzelli giravano mazzette per gli appalti. Lì anche l’ex direttore amministrativo Vito Longo è finito nei guai: oltre alle tangenti intascate, avrebbe comprato alcolici pregiati e cosmetici per sua moglie con i soldi della Fondazione. Per questa accusa la Corte dei conti nel 2017 lo ha condannato a risarcire 373 mila euro. Colpo di teatro garantito.
di Fabio Amendolara
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