I fondi ora affossano la transizione green

Anni di costante martellamento da parte di media e politica hanno provato a convincerci dell’inevitabilità della transizione green. Dai “Fridays for future” di thunberghiana memoria al “Green Deal” prodotto negli uffici di Bruxelles, l’ideologia green ha oramai assunto contorni pseudoreligiosi. Ai pochi arditi che osano porre obiezioni di sorta spetta lo spietato giudizio della nuova “inquisizione verde”. A rimischiare le carte, fornendo un’analisi oggettiva di come i mercati finanziari stiano giudicando gli asset legati all’economia green, ci ha pensato un’analisi di Bloomberg, stilata grazie ai dati forniti da più di 500 fondi ad Hazeltree, un compilatore di dati cloud-based.

Nonostante i miliardi di finanziamenti e agevolazioni erogati da Stati Uniti, Europa e Cina, la maggior parte dei fondi speculativi americani ha deciso di vendere allo scoperto le azioni e gli asset legati a batterie elettriche, pannelli solari, veicoli elettrici e a idrogeno, convinti che i prezzi di tali azioni scenderanno. In parole povere, i più grandi fondi speculativi di Wall Street hanno esaminato attentamente i settori chiave dell'economia verde e hanno deciso di scommettere contro di essi.

I manager dell’alta finanza speculativa, industria che vale circa cinque triliardi di dollari, hanno spiegato che la ragione per la scarsa fiducia nell’economia green sia che nonostante le promesse, i titoli dell’energia pulita e della tecnologia verde sono rimasti molto indietro rispetto al resto del mercato. Il che porta alla logica conclusione che molti degli investimenti legati al green non ripagheranno così rapidamente e in modo così redditizio come inizialmente preventivato.

L’analisi di Bloomberg prende in considerazione quella parte di finanza che opera al di fuori dei pubblici riflettori, poco interessata all’ideologia e ai grandi proclami. Questo fa si che gli asset e le azioni legate alla transizione verde vengano valutate per ciò che realmente valgono, ovvero meno di quanto si voglia far credere.

Non bisogna pensare che la finanza speculativa sia prevenuta nei confronti dell’economia green, tutt’altro. Renaud Saleur, fondatore e CEO di Anaconda Investment SA, società con sede a Ginevra che gestisce diversi fondi speculativi, ha dichiarato a Bloomberg che lui e la sua società «aspettano da anni un punto di svolta» per poter investire nel settore green, ma nonostante gli stimoli «non vediamo ancora la svolta».

In effetti, anche guardando allo S&P Clean Energy Index (l’indice di borsa di Standard & Poor’s che racchiude le aziende legate alla produzione di energia green), si può notare come dopo aver raggiunto il picco del suo valore nel 2021 l’indice abbia oggi perso circa il 60% del suo valore.

Uno dei principali motivi per il mancato decollo del mercato finanziario green è la crescente instabilità geopolitica. La maggior parte della catena di approvvigionamento legata alle tecnologie verdi dipende infatti dalla Cina: pannelli solari, macchine elettriche, batterie al litio, solo per citarne alcune. Il rischio di tensioni o di una guerra commerciale con il dragone è un potente freno agli investimenti nel settore.

Nel settore energetico tradizionale (petrolio, gas e carbone), invece, i fondi speculativi prediligono la posizione “net long”, scommettendo quindi su un rialzo dei prezzi degli asset acquistati, in netto contrasto con i desideri di certo attivismo e di certa politica. I combustibili fossili vengono ancora considerati necessari come fonte di energia sicura e affidabile (seppur inquinante). A rafforzare questa tendenza, lo S&P Global Oil Index è cresciuto del 48% rispetto al valore minimo del 2021, che tra l’altro è lo stesso anno in cui il Clean Energy Index ha raggiunto il picco massimo prima di iniziare a perdere valore.

L’analisi di Bloomberg mette in luce ciò che sono in molti a pensare ma in pochi a dire ad alta voce: siamo proprio sicuri che la transizione green sia inevitabile?

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