Lifestyle
August 29 2013
Fino a un giorno d’aprile del 1947, se dicevi Magnum pensavi alla bottiglia di champagne da un litro e mezzo. Da allora quella pomposa parola latina identificò anche la più importante agenzia di fotogiornalismo del mondo.
La scena si svolge al ristorante del Moma di New York, e la cosa ci dice che l’Agenzia Magnum sarebbe diventata roba da museo, anche se non proprio del tutto, avendo ancora il sapore del vino e del semplice cibo generati dalla terra. In fondo, i fotocronisti erano i proletari dell’arte. I soci fondatori dell’agenzia si chiamano Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, George Rodger e David Seymour. Ognuno ha le sue qualità. Del tipo: Capa, che festeggerà sempre i successi del gruppo con megabottiglie di champagne, rappresenta l’energia, lo spirito d’avventura. Cartier-Bresson la perfezione dello stile, la bellezza dell’attimo, anche se, ammettiamolo, il dono che possiede lui non ce l’ha mai avuto nessuno. Tutti sono però d’accordo sul motivo per cui si ritrovano lì: bisogna che i fotoreporter siano i proprietari dei loro negativi, che abbiano il controllo dei loro archivi.
Questo significa non lavorare più in pianta stabile per questa o quella rivista, ma essere liberi nella connessione autonoma e velocissima coi fatti del mondo. Caccia indipendente, individuale e globale. La Magnum ha rappresentato le strade, le facce, i corpi, le celebrità, la violenza e la morte, e un sacco di quelle vite che compongono la storia del Novecento. Un marchio in bianco e nero, fino a poco tempo fa: nemmeno il sangue, sotto gli obiettivi della Magnum, è rosso.
Oggi questa leggendaria agenzia conta 60 fotografi e quattro sedi (Parigi, Londra, New York e Tokyo). La mostra che la riguarda, al Forte di Bard, in Valle d’Aosta , aperta fino al 10 novembre, è un po’ speciale. Perché Magnum Contact Sheets, questo il titolo, è una fascinosa immersione non solo nel classico universo dell’agenzia, ma anche in quel sottosuolo composto dai cosiddetti provini a contatto, cioè dalle moltissime varianti delle foto che furono scartate. E conservate. La fotografia ha bisogno di luce, e alla luce è destinata? Con questa mostra non guarda fuori di sé ma in se stessa. Il catalogo degli esclusi, delle immagini che furono ritenute uno sbaglio, è la sua ombra.
Scelti da Lorenza Bravetta e Gabriele Accornero, sono 80 i set di provini. Con accanto, o in mezzo alla griglia, la foto indicata come l’unica, la migliore dal suo autore, la carta vincente accanto alle molte cadute. Se ogni fotografia è un istante che non aspetta l’istante successivo, è pur vero che si può sempre premere sul tasto rewind e tornare indietro. Attraverso la visualizzazione dei provini questa tecnica cessa concettualmente di essere un fatto, o un bel gesto, e diventa un processo. Il reporter anche più di strada compie selezioni, simile al più sofisticato ed esigente degli editori. Altro che clic. Che riprenda una discussione tra Nikita Krusciov e Richard Nixon (Elliott Erwitt) o un cane dalmata (Herbert List), il fotografo cerca il miglior risultato che può: componenti come forma, chiarezza, efficacia comunicativa, giocano la loro partita su un terreno di millimetri. E questa è classe.
Per entrare alla Magnum bisognava far vedere un mucchio di provini, mica il capolavoro solitario. Con ciò si dichiarava il proprio pensiero, contraddicendo un vecchio adagio: «Prima di pensare scatta». E oggi? Con la svolta digitale, a partire dal 2000, buonanotte provini: il fotografo interviene direttamente sull’immagine, come fosse un pittore, e come in fondo si faceva già nelle prime foto ottocentesche, quando si ritoccavano i negativi col pennello. D’altra parte, anche chi scrive romanzi al computer difficilmente lascia brogli e scartafacci. La selezione darwiniana che nell’analogico fa affiorare la qualità da un fertilissimo fondo si consuma in una manipolazione immediata che, questo il punto, non lascia tracce.
Nello sterminato territorio del web, dove l’offerta (di foto, di arte, di tutto) eccede qualsiasi domanda, ci si autoedita senza sforzo. Si punta a platee potenzialmente sconfinate, col paradossale risultato, tuttavia, di occupare soltanto nicchie. Azione ormai di massa, resa minacciosa dall’ergersi, sopra le nostre teste, di milioni di cellulari, la fotografia contende lo spazio delle grandi mostre a quadri, sculture, installazioni, ma non lascia più orme al suo passaggio. Si potrebbe dire che manchi il proprio corpo. «Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore» raccomandava Cartier-Bresson. Quel poeta della frazione di secondo oggi aggiungerebbe un quarto fattore: la memoria.