Francesca Cavallin: "La serie Di padre in figlia? Una sfida emozionante"

Alessandro Molinari/Ufficio Stampa
Alessio Boni e Stefania Rocca
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Francesca Cavallin
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Cristiana Capotondi in una foto di scena
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Francesca Cavallin
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Francesca Cavallin in una scena della fiction di Rai 1
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Alessio Boni e Roberto Gudese
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Domenico Diele e Matilde Gioli
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Alessandro Roja e Cristiana Capotondi
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Cristiana Capotondi

La storia di una famiglia per raccontare un Paese che cambia. È una sfida difficile e interessante Di padre in figlia, la nuova serie di Rai 1 in quattro puntate – al via da martedì 18 aprile – scritta da Cristina Comencini, che mette a confronto diverse generazioni di donne e uomini un periodo storico di grande fermento e rivendicazione sociale, dal 1958 ai primi anni ’80. Diretta da Riccardo Milani, la fiction corale schiera un cast importante, da Alessio Boni nei panni di Giovanni Franza, capostipite ruvido e intransigente e Cristiana Capotondi, nel ruolo della primogenita intelligente e determinata. Oltre ad Alessandro Roja, Domenico Diele, Matilde Gioli e Stefania Rocca, c’è anche Francesca Cavallin: reduce dal grande successo di Rocco Schiavone, l’attrice cambia completamente registro e si cala questa volta in un personaggio totalmente inedito e complesso, che spiazzerà i telespettatori. 

Francesca, ci racconti chi è Pina, uno dei personaggi chiave di Di padre in figlia?

Pina incarna una delle parabole di emancipazione femminile raccontate nella serie, partendo dal gradino più basso. È una prostituta che si ritrova senza lavoro dopo l’approvazione della Legge Merlin, ma è il personaggio che ha una forza di auto emancipazione immensa. Con le sue energie decide di diventare una sarta e riuscirà ad aprire una bottega.

Che ruolo gioca nelle dinamiche della serie?

È un traino, ha una forza quasi maieutica. Tanto da instaurare un rapporto speciale con Franca Franza, interpretata da Stefania Rocca, che per la famiglia ha abbandonato ogni pretesa di libertà, tanto da non essere nemmeno alfabetizzata. Pina invece è una donna edotta e ha una passione incredibile per la mitologia greca.

La serie si snoda lungo un arco temporale che va dal 1958 ai primi anni ’80. La sfida per voi attori è stata doppia: c’è stato anche un forte cambiamento fisico?

Tutti i personaggi cambiano secondo la moda. A livello di trucco c’è stato un invecchiamento lieve: io forse avrei spinto un po’ di più, per dare ancora realismo alla storia. Per un attore è un regalo enorme girare una serie di questo livello che ti permette di navigare nel tempo: c’è stato uno sforzo produttivo raro, quasi necessario a fronte di una sceneggiatura così bella e di valore.

A proposito, com’è stato lavorare con Cristina Comencini?

Lei per me è un mito. L’ho conosciuta solo qualche giorno fa durante la presentazione della fiction e i suoi complimenti mi hanno commosso. Il mio è un personaggio è quello che ha amato di più: quando ho fatto il provino per il ruolo ho pensato, “Pina me la prendo e me la porto via, devo avere questa parte”. Poi, leggendo la sceneggiatura, da bassanese (la fiction è stata girata a Bassano del Grappa, ndr) sono rimasta impressionata: la Comencini è riuscita a cogliere lo spirito del luogo, in alcuni dettagli, pur non avendoci mai vissuto.


Sempre di più le fiction raccontano la provincia italiana, anche se non è così facile farlo bene…

Di padre in figlia ci riesce. Nel suo essere una storia universale, ha raccontato una provincia poco raccontata, come tutta la provincia veneta, con la sua mentalità e i suoi lati inediti. Non è solo un racconto generazionale e di emancipazione femminile ma di una terra: i veneti hanno dato molto a questo paese e per questo sono orgogliosa. Per me girare a Bassano è stato doppiamente importante e affettivo: il primo ciack è stato come il primo ciack della mia vita, è stato un salto emotivo intenso.

Hai iniziato a recitare tredici anni fa nella soap Vivere. Com’è cambiata Francesca Cavallin in questi anni in cui hai collezionato ruoli importanti e successi di ascolto?

Questo lavoro è sfidante, per noi donne anche di più. Interviene il tempo che sul corpo dà dei segni, si fa fatica. Sono più consapevole dei miei strumenti: prima soffrivo del complesso di non aver studiato quanto avrei voluto, avendo frequentato una scuola di recitazione solo un anno e mezzo. Ho acquisito maturità professionale e soprattutto privata, che per un attore è un bagaglio immenso: la vita interviene tantissimo nel lavoro, la vampirizzi per riversarla nei personaggi.

C’è qualcosa che non rifaresti?

No, rifarei tutto. Gli attori sono essere fragili: quando riguardo Il generale della Chiesa – uno dei lavori più importanti della mia carriera – mi dico “che belle cose che ho fatto”. Il mio è un mestiere in fieri, so che ci sarà altro da imparare e vivere, da rubare e assorbire. Sono curiosa di vedere quali personaggi busseranno alla mia finestra.

Ce n’è qualcuno che ha già bussato con particolare insistenza?

Mi è parso di vederli, sia per le fiction che per il cinema. Il teatro è una sfida che vorrò affrontare, lo amo molto però ho un timore reverenziale che mi fa attendere ancora un po’: mio marito dice che quando salirò su quelle tavole, non scenderò più. Ho avuto delle proposte per il teatro ma non sono andate a buon fine.

Ci sarai nella seconda stagione di Rocco Schiavone?

Una seconda stagione ci sarà ma non so ancora se ci sarà Nora. Lo spero, anche se l’approccio è stato turbolento e inizialmente non l’ho amata: quando ho letto la sceneggiatura, dopo essere stata scelta, ho rifiutato. Michele Soavi, il regista, ha voluto parlarmi, ha voluto spiegarmi delle cose e mi ha convinto: mi ha dato una chiave di lettura diversa, quella di una donna che vive la sua sessualità con una piena consapevolezza di sé, perché questa relazione è scevra da ogni impegno, è slegata da una progettualità. Il fatto di andare in onda su Rai 2 ha dato al progetto una libertà stilista diversa, quasi di rottura.

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