'Non dire cazzo': intervista a Francesca Rimondi

“L’unico modo di sopravvivere ai figli, è occuparsene”, recita lo strillo della copertina di Non dire cazzo, il romanzo d’esordio di Francesca Rimondi, bolognese di 43 anni: un libro ironico, a tratti esilarante, ma che nello stesso tempo racconta la vita famigliare in modo profondo e sincero. Ne parliamo con l’autrice.

Francesca, partiamo dal titolo….

– Lo so, è un boomerang. Le racconto una cosa. L’altro giorno mi ha chiamato mia zia, classe 1945. Mia zia è una signora distinta, bionda, elegante, un residuo di milanesità nel sangue nonostante i quasi cinquant’anni vissuti a Bologna. “Come cazzo faccio, io, ad andare dal libraio e a domandare un titolo del genere, cocca?” mi ha rimproverato. “Cazzo, zia” le ho risposto.

Credo ce l’abbia fatta. Credo abbia vinto la ritrosia, l’entropia, la borghesia e la finta villania. Insomma, tutti diciamo cazzo. Solo che nessuno è disposto a concedersi il lusso di pronunciarlo in occasioni pubbliche, davanti a sconosciuti, senza dover essere per forza aggressivi.

Al di là di questo, credo che non ci potesse essere nessun altro titolo così azzeccato. Nel romanzo se lo dicono tutti: non solo la madre ai figli, ma i figli alla madre, la pediatra alla madre, la madre al nonno, il nonno ai medici e via dicendo.

Tuo figlio “Numero Uno”, che ha scritto la postfazione, si sofferma sulla necessità di distinguere, nel tuo romanzo, tra autobiografia e finzione letteraria. Solo tu puoi chiarire quanto, in Non dire cazzo, c’è di autobiografico e quanto è invece finzione.

- Allora, sperando che mio figlio Numero Uno non legga mai questa intervista, devo dire che è tutto vero. Ma è anche tutto finto. Nel senso: la protagonista vive le mie stesse esperienze, abbiamo percorso le stesse strade. Ovvio che poi, tentando di dare forma letteraria alla mia pratica quotidiana di annullamento, ho esagerato, inventato, ricreato dialoghi che avrei voluto avere, incontri che avrei voluto fare. La mia protagonista incontra personaggi famosi ogni giorno. E ci parla e regala loro i punti coop per vincere i bicchieri in premio. Dio, quanto vorrei averlo fatto io, DAVVERO, invece di limitarmi a scomparire, ogni volta, davanti al primo Samuele Bersani che incrocio.

Poi ci sono i figli. I miei figli non parlano così nella vita. O meglio: sì, certe cose le hanno effettivamente dette. Poi io le ho prese, le ho rigiocate su diversi registri e ritmi più scorrevoli. Ho rielaborato la visione del mondo infantile e completamente sbomballata di mio figlio Numero Due, che, essendo ancora nell’età d’oro dell’infanzia, non si rende conto di quanto buffo e insieme profondo e grave – nel senso etimologico del termine – sia.

Su mio Figlio Numero Uno, invece, non ho avuto bisogno di inventare o ristrutturare nulla. La sua adolescenza è andata esattamente così. Ma non diteglielo.

Come mai la scelta di non dare un nome ai due figli della protagonista, che lungo tutto il romanzo vengono chiamati semplicemente “Numero Uno” e “Numero Due”?

– Anche Mary Shelley, quando scrisse Frankenstein, decise di non dare un nome al Mostro. Viene chiamato con nomi generici, “l’orrida Creatura”, “il Mostro”, appunto.

Alcuni passaggi del romanzo sono davvero abrasivi, come per esempio la descrizione della “chat delle mamme”. Sono passaggi dai quali emerge un’immagine della genitorialità ai limiti del patologico. Hai volutamente esagerato, o è davvero così?

- Le chat delle mamme sono la testimonianza dell’abbrutimento massimo cui l’umanità è giunta. Voglio dire, la chat in sé potrebbe – e dovrebbe – avere un’utilità. Sapere se c’è sciopero del personale, gli appuntamenti con gli insegnanti, le comunicazioni scuola-casa, ok. Invece è diventata uno strumento di controllo terrificante. I genitori si sentono autorizzati a entrare a scuola con i figli, assecondando così una tendenza alla difesa e protezione delle povere creature, che è diventata tossica. Senza contare la rottura di palle di doversi sorbire tutto il santo giorno a qualunque ora messaggini sconclusionati, sgrammaticati, in cui tutti ringraziano e tutti litigano e tutti si danno il buongiorno e tutti si insultano e tutti mettono faccine a cazzo e tutti danno ragione mediamente all’ultimo che ha scritto senza capirci nulla di quello che ha scritto e così via.

Hai detto che il tuo è un romanzo sull’invecchiare. Puoi spiegarci perché?

- A un certo punto della mia vita ho compiuto quarant’anni. Capita più o meno a tutti. È stato il momento in cui mi sono resa conto di diverse cose. Prima su tutte, il fatto che i miei genitori invecchiavano. Inesorabilmente. E intanto i miei figli crescevano. Io me ne stavo lì – e ci sto tutt’ora – in questa posizione centrale, da un lato i miei figli avevano bisogno di me, dall’altro io ho dovuto smettere di avere bisogno dei miei genitori. Ho dovuto in qualche modo far fronte al fatto che adesso erano loro ad aver bisogno di me. “Ho smesso di essere figlia” dice a un certo punto la protagonista, non perché si sia improvvisamente imbarcata su un cargo battente bandiera giamaicana facendo ciao con la mano a tutta la baracca, anzi. Smette di essere figlia perché non può più permettersi questo lusso. E questo ribaltamento di ruoli rafforza paradossalmente il legame con i genitori anziani, malati, sempre meno autonomi. Ecco, in tutta l’epopea ospedaliera del padre raccontata nel libro diciamo che c’è molto, moltissimo di autobiografico.

Almeno qui puoi rispondere a una delle domande di figlio “Numero Uno”, con le quali iniziano i capitoli del romanzo: “Mamma, ma tu hai mai fatto sesso?”

- Solo due volte, ovvio.


Francesca Rimondi, Non dire cazzo

Frassinelli, 2018, 340 p.

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