Francesco Clemente: «Vi porto nella mia tenda tra demoni, angeli e Tarocchi»

Prima di entrare a visitare una mostra attesa come capolavoro, il pensiero va sempre all’immenso Alberto Arbasino. L’uomo che meriterebbe la gloria eterna solo per aver elevato a magistero la sublime arte del cazzeggio. E così mentre ci avventuriamo nella sontuosa personale romana di Francesco Clemente, Anima Nomade, appena inaugurata al Palazzo delle Esposizioni (fino al 30 marzo, curata da Bartolomeo Pietromarchi) ci sovvengono le parole del Venerato Maestro riguardo ai vezzi dell’arte contemporanea: «Visionari artigianelli. Apocalittici casarecci. Catastrofici rusticani». E invece niente di tutto ciò. L’artista napoletano dagli occhi azzurri e dalle mani elegantemente ornate da anelli antichi usa un’arma tanto raffinata quanto affilata. Attraverso un’unica grande installazione obbliga il visitatore a un crudele viaggio dentro sé stesso. Entrando in tende semibuie ci si trova immersi tra paradisi abitati da demoni, fiere solo apparentemente mansuete, corpi di donne nudi che danzano, cuori spezzati, civette, tigri.

E figure tratte dai 22 Arcani Maggiori che compongono il mazzo dei Tarocchi. «Ogni tenda racchiude qualcuna delle mie vite», racconta seduto sulla stuoia della Tenda della verità. «Le mie tende sono come il proverbiale viaggio iniziatico».

Il suo viaggio iniziatico da dove partì?

A Roma, nel 1971, a San Pietro Montorio dove ho smaltito la mia prima esperienza psichedelica. Era l’alba con le rondini che circolavano ossessivamente intorno al tempietto del Bramante. Avevo diciannove anni. Fu sconcertante vedere dissolversi l’idea limitata che avevo di me stesso. Mi liberai dagli ormeggi e iniziai a lasciarmi cadere nel mondo.

Guardando alla sua opera attraverso la simbologia dei Tarocchi, la caduta corrisponde al Matto, l’unico arcano che non ha un numero, il simbolo dell’impulso creatore.

Nel 2011 mostrai agli Uffizi un completo mazzo nel quale avevo ritratto la mia famiglia e i miei amici. E naturalmente io ero il Matto. Colui che si lascia cadere. L’analogia più precisa è: essere immerso in una fonte battesimale che dissolve le maschere che avevo portato fino a quel momento. Non ero ancora stato in India e quindi non sapevo che esistevano intere civiltà fondate sulla messa in discussione della falsa nozione del sé.

Come iniziò l’amore per l’India?

Abitai per molti anni a Madras, nel giardino della Società Teosofica, responsabile per la scoperta e l’educazione di Krishnamurti che rimane per me un punto di ispirazione.

La verità è una terra senza sentieri, disse proprio Krishnamurti. Ha pensato a lui per questo lavoro?

La Tenda della verità in realtà è ispirata a Kabir, un mistico indiano del Settecento, che disse: «Mi sveglio con la verità, mi alzo con la verità, cammino con la verità».

C’è stata verità nella sua vita?

Non più che nella vita di chiunque altro. Però quello che Kabir ci vuole ricordare è che insieme al nostro corpo, ne abbiamo uno celeste, la cui natura è incontaminata e che dobbiamo coltivare e al quale dobbiamo appoggiarci.

All’ingresso della tenda ha dipinto l’Appeso, la dodicesima carta degli Arcani Maggiori. Si sente come l’uomo a testa in giù?

Il mio spirito non è così severo, anzi è inclusivo e raramente faccio delle potature. Voglio sempre ricomporre tutto, riconciliare, sono contro il conflitto. La pittura richiede molta energia e attenzione, mentre il conflitto è distrazione. Già nel Medioevo la distrazione era considerata la porta d’ingresso del Maligno.

Eppure in uno degli autoritratti esposti si ritrae «appeso» con una corda al collo.

È vero, ma nelle carte ci sono tanti aspetti, essendo immagini, e anche il mio è un linguaggio di immagini, sono sempre ambivalenti. L’impiccato può essere visto come il simbolo dell’attesa, della sospensione, della concentrazione. Può essere letto come il ribaltamento del proprio punto di vista. Qualcuno che decide di mettersi a testa in giù per vedere le cose diversamente. Questa è una bella definizione dell’artista che ambisco ad essere. L'impiccato è chi si ritrae dall'azione per accumulare energia.

Ama il dietro le quinte, lei che fu protagonista della scintillante New York anni Ottanta?

Ricordo che quando i miei genitori visitarono il mio studio a New York, dissero: «Il tuo grande studio ci sorprende, soprattutto quando ci ricordiamo che hai passato dieci anni della tua vita seduto su un gradino a Campo dei Fiori!». Ecco per dieci anni a Roma io sono stato l'impiccato. Ho potato i rami disordinati della mia mente, sperando che ne germogliasse un senso nuovo.

Una parte della mostra è dedicata a una sfilata di bandiere rosse. Tra i viaggi iniziatici ha compiuto anche quello politico?

La bandiera rossa è quella che conosciamo, che seguivamo tanti anni fa. Ma in questo caso è decorata da emblemi della vita psichica. Quello che è mancato alla bandiera rossa è una narrativa avvincente per la psiche. Alla fine quella Storia non bastava. L’altro lato della mia bandiera è un collage di memorie, inciso con un broccato di frasi ricamate in oro estratte dal saggio di Guy Debord La società dello spettacolo, che mi è caro. Mentre appariva enigmatico e incomprensibile quando fu scritto negli anni Settanta, adesso è non abbastanza estremo nella descrizione della nuova strategia di dominio del capitalismo.

Si iscrisse mai al Partito comunista?

No, a 19 anni me ne andai in India, perché mi sembrava che la Storia fosse entrata in un vicolo cieco nel quale non volevo rimanere impigliato. Ho ancorato la mia storia alla geografia. Questa scelta culmina nella realizzazione di queste Tende nate proprio in India cinquanta anni dopo.

Una è interamente dedicata alla figura del Diavolo, la quindicesima carta. Che significato ha Lucifero?

Se vogliamo usare i Tarocchi, è quella forza che illumina l’oscurità. Anche il Diavolo, come l'Impiccato, si esprime con un rovesciamento. Ha in mano una torcia all’incontrario e illumina un uomo e una donna, che si stanno trasformando in animali. È rappresentato come un dandy col monocolo e la tuba tra il sinistro e il comico, ispirato a Eshu, messaggero degli Orisha afrobrasiliani. Preferisce il potere al piacere. Si interessa solo a quello che può controllare e il suo obiettivo finale è di pietrificare i desideri amorosi. È l’emblema di quella parte di noi che teniamo nascosta, della quale non siamo al corrente, che però è anche quella determinante e della quale fanno parte tutte le nostre decisioni e scelte. Anche se non credo nelle decisioni e nemmeno nelle scelte.

Non esiste il libero arbitrio?

Quando pensiamo di decidere o scegliere siamo in errore. Tutto è già in qualche modo parte di una tessitura nella quale dobbiamo semplicemente adattarci. Ho passato la vita puntando le mie energie e i miei sforzi nella accettazione di ciò che mi veniva dato, piuttosto che nella modifica di quello che avveniva. Questa è un’attitudine molto favorevole all’attività di un pittore, perché un artista deve avere ottime idee, ma anche la determinazione di buttarle nel fuoco e di rimanere con l’oggetto e le leggi della forma, che poi sono quelle fondamentali, radicate nell’essere e non nelle fantasticherie della vita.

Ha mai incontrato Satana?

L’ho incontrato anni fa da un antiquario londinese che aveva un quadro che mi incantava. Credevo fosse di Johann Heinrich Fussli. L’antiquario era alquanto snob e si rifiutava di ammettere che era del demoniaco pittore neoclassico, così me lo ha venduto per pochissimo. Da allora domina la mia casa in America. È un’immagine di Satana visto come la mente del nostro tempo. Una figura che volge le spalle alla luce, guidato da Saturno, con una spirale che parte dalla testa. È l’attività intellettuale chiusa in sé stessa. Quindi Satana è l’emblema della mente contemporanea. Gli manca il colorito, il rapporto immediato con il corpo, la fisicità. Come diceva Jung: «La tragedia dell’uomo moderno è di essere chiuso nella propria mente».

Opera di Francesco Clemente

Nelle sue opere da sempre c’è un forte erotismo, ha ancora così potere il sesso?

Tutte le tradizioni contemplative hanno mostrato immagini erotiche agli iniziati per ricordare che conoscere è arrendersi e che c’è piacere nella resa. E poi esistono tanti territori, ogni territorio in sé è un inferno. Ma all’interno c’è sempre una via d’uscita, che è quella che bisogna prendere. Sono affezionato a una frase di Salman Rushdie: «Per conoscere il cerchio bisogna uscirne».

È riuscito a guardare la partita dall’alto?

È una strategia che mi è stata molto utile nella pittura, mi sono sempre allontanato tanto geograficamente che intellettualmente da qualunque contesto nel quale per un momento appartenevo per poterlo vedere da lontano. Con nostalgia e anche con affetto e per ritrovare un senso di equilibrio.

Entrando nel percorso della mostra se si gira a sinistra si finisce tra le braccia dei diavoli, mentre a destra c’è la Tenda degli angeli. Dove pensa che il pubblico sceglierà di dirigersi?

Dipende. Se sono fortunati o meno. I miei angeli sono immaginati come stremati da qualcosa. Appartengono un po’ all’universo di Emanuel Swedenborg, la grande ispirazione di William Blake, che si era immaginato di visitare il Paradiso e trovare la replica perfetta della realtà. Niente di etereo, astratto. Tutto quello che appartiene al Paradiso è ciò che è perfettamente completato. Così torniamo all’idea che desideri e pensieri vanno finiti senza lasciarsi distrarre.

La morte, l’Arcano senza nome, cos’è?

La morte è una fantasia borghese. Non esiste. Per esserci la morte dovrebbe esistere la vita nei termini in cui viene immaginata dalle strutture di potere dalle quali siamo tormentati. Ma quella non è certo la nostra realtà. Krishnamurti, raro e improbabile ribelle del nostro tempo, ci ha insegnato che siamo eterni non immortali.

Alla fine di questo viaggio ha trovato quello che cercava?

Non ci sono conclusioni. Tutte le conclusioni sono delusioni. Tutto quello che si realizza, una tenda o un desiderio, sono le conseguenze indesiderate della contemplazione della vera natura delle cose. Che rimane irraggiungibile, ma continua a generare, come una sorgente inesauribile, immagini di ricchezza e salute nel senso profondo della parola. Uscire dal pensiero dualista è l’unico sforzo indispensabile, utile, necessario, che vale la pena di fare. Tutto il resto è incidentale. È il mazzo dei Tarocchi, dove le carte sono le stesse per tutti, è solo l’ordine che cambia, la combinazione. L’importante è chiudere la lettura, riporle in un cassetto e affacciarsi alla finestra.

Opera di Francesco Clemente

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