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December 05 2021
Un ragazzo di 14 anni a Ruvo di Puglia si è lanciato dal balcone dell’aula dopo aver preso un brutto voto a scuola, morendo sul colpo sotto gli occhi dei suoi compagni di classe. Drammi così sono sempre più frequenti alla luce dell’alto numero di adolescenti con disagi psicologici e comportamentali registrati durante il periodo pandemico con le scuole chiuse. Il rapporto Censis pubblicato ieri ha registrato che l’81,0% dei 572 dirigenti scolastici di scuola secondaria di secondo grado segnala che tra gli studenti sono sempre più diffuse forme di depressione e disagio esistenziale.E se da un lato molti alunni chiedono di andare a scuola in presenza e che venga scongiurata la DaD per ripristinare relazioni e contatti personali, dall’altro lato il 76,8% dei dirigenti sottolinea che gli studenti vivono in una fase di sospensione, senza disporre di prospettive chiare per i loro progetti di vita, alle volte apatici e indifferenti a qualunque sollecitazione (lo pensa il 46,3% dei dirigenti), alle volte sommersi di stimoli e informazioni al punto di non riuscire a districarsi e a operare una selezione (è il parere del 78,3% dei dirigenti scolastici).Sensazioni accresciute dalla pandemia, naturalmente, dato che le certezze dei ragazzi rispetto al proprio futuro hanno subito un duro colpo. Non a caso per il 46,6% dei dirigenti scolastici l’atteggiamento prevalente tra i propri studenti è il disorientamento.
La rincorsa alla dad, se pure si è attestata come strumento utile in sostituzione della totale assenza di didattica, non lo è stato per tutti, e non lo è stato per tutta una serie di fattori formativi che accompagnano l’istruzione: socialità, educazione, e lotta alla marginalità e alle disuguaglianze sociali.Eppure sta succedendo ancora. A nulla sono servite le promesse del Governo la scorsa estate quando annunciava mai più dad, tantomeno i balletti delle circolari sui protocolli scolastici. Dopo l’avvio dell’anno scolastico con le stesse regole del precedente, a novembre ministero dell’istruzione e della salute hanno emanato una direttiva per tutte le scuole con cui eliminavano la dad automatica per tutta la classe in caso di alunno o insegnante positivo, sostituta da tamponi per tutti. Il protocollo però non era imperativo, ma soggetto alla disponibilità e al volere di asl, presidi e sindaci. E cosi non lo ha rispettato nessuno. Dopo due settimane il 29 novembre nuova circolare ministeriale: le asl non ce la fanno a fare tamponi, dad per ogni positivo. La vede Draghi e si arrabbia: con nota del 30 novembre il commissario Figliuolo mi ha comunicato che i tamponi li fa lui, niente dad. Questa nota di Figliuolo però non si trova da nessuna parte, ne arriva una solo il 1 dicembre che annuncia che i tamponi nelle scuole li faranno i militari!!! I militari però ancora non si sono visti, e ancora oggi leggiamo note di decine di scuole tutte in dad per un solo positivo.
Dopo due anni di pandemia, il paese migliore del mondo a fare i vaccini, e ancora non si riesce a garantire la scuola per i ragazzi. Come se la situazione scolastica non fosse già disastrata, come se dovessero essere sempre loro quelli sacrificabili. Che la chiusura delle scuole, una scelta politica e non obbligata dal covid, tant’è vero che i nostri vicini europei sono andati a scuola sempre anche in pieno lockdown, sia stata un disastro lo dimostra una circostanza su tutte: il divario acuito nel Mezzogiorno d’Italia, dove i Governatori hanno tenuto le scuole chiuse più a lungo. In alcuni casi, come Campania e Puglia, quasi tutto l’anno.
Nel silenzio allora e oggi del Governo, che anzi copre quei governatori e quelle scelte. Dal rapporto Svimez 2021 pubblicato due giorni fa leggiamo: “L’emergenza sanitaria da Covid-19 ha introdotto nel sistema scolastico l’utilizzo massivo della “Didattica a Distanza” che ha rischiato di far venir meno il principio di equità che dovrebbe guidare ogni azione educativa e di favorire il radicamento delle differenze fra gli studenti, legate al loro ambiente domestico, caratterizzato dal possesso o meno di adeguati spazi e strumenti tecnologici e dalle caratteristiche socioeconomiche delle famiglie. Da una panoramica generale sui dati INVALSI risulta che l’8% degli studenti (circa 38.300) non possiede in casa né un computer per studiare né una connessione a Internet, mentre il 5,2% (circa 25.097 studenti) non può usufruire tra le mura domestiche né di un posto tranquillo per studiare né di una scrivania per fare i compiti. Inoltre, solo il 25,2% degli studenti ha almeno un genitore con titolo di studio superiore al diploma, meno del 10% ha entrambi i genitori laureati mentre il 53,5% non ha nessuno dei genitori che lavora utilizzando dispositivi tecnologici.
Sempre la scorsa settimana è stato pubblicato il rapporto Asvis sui territori che è ancora più dettagliato: “nel Mezzogiorno che si registrano i valori peggiori dell’indice composito sull’istruzione. In Campania, le criticità sono diffuse su tutto il territorio, in particolare a Caserta a causa della bassa quota di diplomati (49,9% nel 2020, rispetto al 62,9% dell’Italia). Anche in Puglia si verifica una situazione critica in particolare nelle Province di Barletta-Andria- Trani, Taranto e Brindisi, e in Calabria a Crotone. Anche le due isole mostrano forti problematicità: in Sicilia, Trapani, Caltanissetta e Ragusa hanno un valore della formazione continua tra i più bassi d’Italia, mentre in Sardegna, Sassari e Oristano hanno un livello critico per il tasso di diplomati e per quello di laureati.Il rapporto tra la somma dei valori dell’indice composito delle ultime e delle prime 20 Province e Città metropolitane mostra un aumento delle disuguaglianze tra il 2010 e il 2020”.In totale nel Mezzogiorno dal 2019 al 2021 sono 105 mila gli studenti in meno, ovvero il 4% della popolazione studentesca complessiva, mentre al nord sono 8o mila. Nel Sud il grosso delle perdite si registra nel primo ciclo statale con meno 20 mila per l’infanzia, meno 35 mila per la primaria, e meno 15 mila per la secondaria di primo gradoLa differenza del grado di istruzione tra nord e sud non è dovuta solo al maggior ricorso alla dad, ma si va a inserire in un settore in cui il mezzogiorno è più indietro anche per altri fattori. Dal rapporto asvis nel capitolo istruzione leggiamo: “A livello nazionale i posti disponibili nei servizi per la prima infanzia raggiungono il 26,9% del potenziale bacino di utenza (bambini residenti al di sotto dei 3 anni di età). Il dato nazionale sottende ancora un forte sottodimensionamento nel Mezzogiorno (14,9% dell’utenza potenziale) mentre il resto del Paese con il 33,5% ha finalmente raggiunto il target. Il Sud sconta, inoltre, la forte carenza di asili nido pubblici (44,7% dei posti autorizzati a fronte del 51,3% del Centro-Nord) e l’alto costo di quelli privati. Nel 2019, nel Mezzogiorno solo il 6,4% dei bambini da 0 fino al compimento dei tre anni ha usufruito dei servizi per l’infanzia offerti dai comuni a fronte del 19,3% del Centro-Nord.Nel Mezzogiorno è molto meno diffuso l’orario prolungato nella scuola d’infanzia (5,3% dei bambini), e, viceversa più diffuso l’orario ridotto (19,7%) rispetto al Centro-Nord (17,3% e 3,6% rispettivamente i bambini ad orario prolungato e ridotto) mentre nella scuola primaria la percentuale di alunni che frequentano a tempo pieno è più bassa nelle regioni meridionali (17,6%) rispetto al resto del Paese (47,7%).Il target quantitativo della strategia di Lisbona che prevedeva il raggiungimento nel 2010 di una quota dell’85% dei giovani tra i 20 ed i 24 anni con almeno un diploma di scuola secondaria superiore è praticamente raggiunto per le regioni del Centro-Nord (84,9%), mentre è ancora distante, seppur in forte crescita nell’ultimo anno per quelle del Mezzogiorno (80,2% nel 2020, era 77,7% nel 2019). Nel 2020 ancora circa 543 mila giovani, di cui 253 mila nel Mezzogiorno pur avendo al massimo la licenza media abbandonano il sistema di istruzione e formazione professionale. Il Mezzogiorno e, soprattutto, Campania, Calabria e Sicilia, presentano tassi di abbandono assai più elevati: nel 2020, ultimo anno per cui sono disponibili i dati, gli early leavers meridionali erano il 16,3% a fronte dell’11,2% delle regioni del Centro-Nord. Tra i fattori che determinano l’abbandono un ruolo importante riguarda la concentrazione degli studenti più fragili nelle stesse scuole, tipicamente gli istituti professionali; questa segmentazione fa sì che ragazzi non particolarmente motivati si ritrovino in classi con compagni con le stesse difficoltà: poiché l’influenza dei propri pari è un aspetto importante dell’impegno personale, in queste scuole il rischio di dispersione è assai più elevato. Sulla dispersione incide significativamente anche la condizione socioprofessionale dei genitori”.
Ci sono dunque alunni che a scuola ci vanno, ma non imparano. E questa è la cosiddetta dispersione implicita registrata dagli Invalsi. Un dato che solo la regione Puglia non ha potuto verificare, perché i bambini delle elementari pugliesi sono gli unici che in blocco non hanno partecipato agli Invalsi: perché erano tutti a casa. Per tutti gli altri si registra che il territorio di appartenenza conta, quindi, ma conta anche l’ambiente sociale, economico e culturale di provenienza. In tutte le materie testate da Invalsi emerge che il punteggio cresce al crescere dello status sociale, con scarti maggiori tra i punteggi bassi e medio-bassi rispetto a quelli alti. Lo status influisce anche sulla scelta della scuola superiore: a parità di risultati scolastici, coloro che vengono da contesti più agiati sono più propensi a orientarsi verso i licei rispetto a coloro che vengono da famiglie modeste.
Questo ultimo dato è quello più significativo da incrociare con quelli sulla dad. Infatti bisogna essere onesti anche su questo: se al sud le scuole sono state più chiuse che al nord non è perché la pandemia è stata più cruenta, tutt’altro. Ma perché in parte i governatori meridionali sono stati meno in grado di gestirla, e quindi tenere i bambini a casa li ha aiutati in questo, ma soprattutto perché i genitori del sud volevano i bambini a casa, e le mamme che non lavorano potevano tenerli.
Prendiamo da Svimez i dati sull’occupazione femminile: “Nel biennio tra il secondo trimestre 2019 ed il secondo trimestre 2021, l’occupazione femminile si è ridotta in Italia di 370 mila unità pari al -3,7% a fronte di un calo di 308 mila unità per gli uomini (-2,3%). Flessione molto accentuata rispetto alla UE a 27 dove si è attestata intorno all’1%. Il calo dell’occupazione femminile è stato più accentuato nel Mezzogiorno. Rispetto al secondo trimestre 2019, l’occupazione femminile nel Mezzogiorno si è ridotta di 117 mila unità pari al -5% a fronte del -3,3% del Centro-Nord (253 mila unità). Il calo complessivo risulta attenuato dal forte recupero registrato nella ripresa in corso. Nel secondo trimestre 2021, su base annua, l’occupazione femminile, rispetto al secondo trimestre 2020, è aumentata di 295 mila (+3,2%) in misura decisamente più accentuata rispetto all’occupazione maschile (228 mila unità pari al +1,7%).L’emergenza sanitaria ha cancellato in un anno oltre il 40% dell’occupazione femminile creata tra il 2008 e il 2019 riportando il tasso d’occupazione delle donne a poco meno di due punti sopra i livelli del 2008. A subire le perdite maggiori sono stati i segmenti più deboli. Nel Mezzogiorno, dove il segmento debole del mercato del lavoro ha un peso maggiore, l’emergenza sanitaria ha inciso maggiormente: le occupate totali flettono del 3%, le straniere dell’11,8%, le occupate a part time involontario del 5,6%”.
Quindi la scarsa occupazione femminile al sud, fa aumentare la dad, e le disuguaglianze sociali che produrranno a loro volta maggiore dispersione scolastica e disoccupazione.
Di fronte a questo circolo vizioso viene da chiedersi come non si sentano responsabili tutti gli eletti del sud, quelli che ogni due per tre lamentano fondi per il mezzogiorno, e quelli che si riempiono la bocca di bontà parlando di disuguaglianze di genere, giovani, e uguaglianza. Diremo e faremo d’avanti a tutto questo non vale più. I governatori del sud hanno tenuto per un anno le scuole chiuse e stanno continuando a farlo con la complicità di asl, presidi e sindaci. E nessuno, nel resto d’Italia, ha detto niente.