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(Ansa)
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Quel furore giovane fin troppo compreso

Primo settembre, Paderno Dugnano: un 17enne stermina la sua famiglia. 4 settembre, Parma: una 15enne muore in casa per overdose. 6 settembre, Bologna: un 16enne uccide un coetaneo con una coltellata. 11 settembre, Perugia: 13enne si uccide perché le hanno tolto il telefonino. 12 settembre, Lecce: al primo giorno di scuola beve vodka in classe con i suoi compagni, 15enne rimane intossicata… Ormai è un bollettino di guerra, la nostra guerra quotidiana: ogni giorno una pioggia di notizie così. Ma che cosa sta succedendo ai nostri ragazzi?

I dati del ministero dell’Interno sono chiari: stanno aumentando le lesioni e i feriti tra gli under 18. Gli psicoterapeuti lanciano l’allarme: sempre più ragazzi girano armati. Una ricerca dell’Università Iulm rivela che a Milano un ragazzo su tre è ansioso o depresso. Dopo la generazione X, la generazione Z e la generazione Millennial, arriva la generazione P, come perduta. Ragazzi che spesso hanno tutto, ma hanno perso il futuro. E cercano una risposta al nulla che hanno dentro rifugiandosi nella violenza, sugli altri o anche su sé stessi.

Aumentano le risse, aumentano le aggressioni in strada, aumentano gli episodi di autolesionismo. Aumenta, soprattutto, il ricorso alle droghe, agli psicofarmaci e all’alcol. Da molti anni ormai l’età per l’assunzione di sostanze sta scendendo. Scende tanto, scende sempre di più. Nei Pronto soccorso si segnalano casi di coma etilico già a 12-13 anni. Ci si stordisce per non pensare. Ci si stordisce perché non si ha altro fa fare. Le sostanze dilagano dentro il vuoto delle esistenze di ragazzini che dovrebbero essere pronti scalare le vette del mondo. E invece molto spesso non hanno nemmeno la forza per reggersi in piedi.

Ma li avete mai visti la sera, quando girano come zombie, in cerca di un altro shottino? Li avete sentiti nei loro discorsi intrisi di bestemmie e volgarità? Si chiamano fratelli e nascondono coltelli. Si dichiarano amici nelle piazze virtuali e poi si prendono a botte nelle strade reali. I loro idoli cantano la violenza e la droga, oltre che tenere canzoni dove «la tua tipa ha succhiato più cazzi che la mia» e «sta puttana sa di papaya, vuole il pesce ma è lei che sta nella rete». Romanticismo puro, si capisce. Nella vita reale, per altro, questi idoli sono ancor più violenti che nelle canzoni, così mandano ai loro fan un messaggio chiaro: droga e armi sono la strada giusta per avere successo. E per essere felici.

Non è vero, ma che importa? L’importante è crederci un attimo, scaricare il brano giusto, sentirsi forti in quel momento. Poi tornano ansia, depressione, la sfiducia. La rabbia. L’assenza di futuro. E io non so dove sia l’origine di tutta questa angoscia: è vero che il mondo che stiamo lasciando loro non è un granché. È vero che abbiamo distrutto tutti quelli che erano i punti fermi della formazione, a cominciare da famiglia e scuola. È vero che le tecnologie hanno ormai lavato i cervelli e inaridito la sensibilità dei rapporti umani. Ed è vero che i lunghi periodi di lockdown da pandemia, con le scuole e i centri di aggregazione chiusi, hanno lasciato cicatrici non più assorbibili sulla carne tenera di chi in quegli anni stava crescendo. Tutto vero, si capisce. Ma forse è altrettanto vero che è venuto il momento di dire basta agli alibi. Basta alle giustificazioni.

Forse è venuto il momento di dire ai ragazzi: sveglia, tocca a voi. E ce la dovete fare. Lo sappiamo che il mondo in cui siete cresciuti è duro: ma quello dei vostri nonni e bisnonni era anche peggio. Lo so che incontrate ogni giorno delle difficoltà: ma le difficoltà che incontravano i vostri nonni e bisnonni erano anche peggio. Tiratevi su le maniche e datevi da fare, proprio come hanno fatto loro, senza aspettare che qualcuno venga in vostro soccorso al grido di «poveretti!». Non siete poveretti. Al massimo vi comportate come tali.

L’ansia dei giovani è un lusso che si possono concedere le società ricche. Il disagio mentale da ragazzini è un privilegio consentito solo dall’opulenza. Ansia e disagio esistono, si capisce, ma sono sicuro che scomparirebbero di fronte a Renato Quaglia. L’ho conosciuto qualche giorno fa: è un piemontese, forte, orgoglioso, carabiniere per una vita. Ha 106 anni. E ancora una vitalità sorprendente. Ha fatto la guerra, ha combattuto, è finito prigioniero in Germania, ma si è sempre ripreso. Ogni volta ha ricominciato. E oggi sprizza un’energia che tantissimi assai più giovani di lui se la sognano. Una mia collaboratrice gli ha chiesto cosa pensasse dei giovani. E lui: «Sono dei mollicci, annoiati. Si diano da fare». Se si potesse lo metterei come materia di insegnamento, obbligatoria, in ogni scuola del Paese. Sono convinto che il disagio dei giovani diminuirebbe assai.

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