Politica
July 21 2023
Da Panorama del 27 maggio 2015
Meglio un brutto processo che un bel funerale». Era il motto che, vent’anni fa, veniva insegnato agli allievi delle scuole di Polizia. Oggi il primo obiettivo è evitarlo, il processo.
Il dibattito parlamentare sull’imminente introduzione del reato di tortura, con il suo carico di articoli ambigui e capaci di criminalizzare un banale colpo di manganello inferto a un black-bloc che resiste all’arresto (vedere anche il commento a pag. 46), la condanna della Corte di Strasburgo per le violenze alla scuola Diaz di Genova e il decreto svuotacarceri, che prevede l’arresto solo per reati davvero gravi, stanno influendo drasticamente sul modo di pensare, e di lavorare, dei 93.500 poliziotti e dei 103 mila carabinieri.
Non si tratta di semplici malumori, se già oggi nessun agente riesce a stipulare una polizza assicurativa che gli copra le spese di eventuali procedimenti penali su fatti commessi in servizio. È così vero che ormai tutti i sindacati di categoria offrono agli iscritti convenzioni con studi legali. Del resto ogni reparto operativo, dalle volanti alla squadra mobile, fino ai reparti di prevenzioni, conta qualche agente sotto inchiesta. Quasi sempre si tratta di atti dovuti, spesso non si arriva nemmeno al rinvio a giudizio. Ma intanto, nelle caserme, nelle questure, nei commissariati c’è sempre meno serenità
Basta davvero un nulla per finire nell’occhio del ciclone. A Massa, il 16 maggio, il leader leghista Matteo Salvini stava parlando in centro quando un gruppo di antagonisti e anarchici dei centri sociali ha tentato di forzare il cordone delle forze dell’ordine. Spinte, tafferugli. Niente di eccezionale. Finché un sessantenne, Silvano R., anarchico della zona, viene fermato dagli agenti del reparto mobile. L’uomo, trattenuto per un braccio, con la mano libera brandisce un casco da motociclista e lo abbatte più volte e con violenza contro l’agente che lo trattiene, colpendolo con forza alla testa, fortunatamente protetta dall’Uboot, il casco antisommossa. Finché un altro poliziotto va in aiuto al collega e, in tre, riescono ad immobilizzare l’esagitato. In attesa dell’arrivo dell’ambulanza, l’anarchico continua a sputare e a offendere il poliziotto; gli lancia contro l’acqua di una bottiglietta. Intorno decine di fotografi e telecamere riprendono la scena, che su internet diventa virale. E l’agente è sempre mmobile, sembra una statua di sale. Passano poche ore e, puntuali, arrivano le critiche all’operato delle forze dell’ordine da parte di Salvini e di tre consiglieri comunali di sinistra che hanno preso parte alla manifestazione. Anche stavolta, nel mirino, ci sono poliziotti e carabinieri: «Non posso dare giustificazioni alla pessima organizzazione dell’ordine pubblico» dichiara alla stampa uno dei consiglieri «ho visto solo inutile violenza». «C’è una cattiva gestione dell’ordine pubblico» denuncia invece il leader della Lega, per la cui protezione il Viminale dice di impiegare ottomila agenti. Polemiche politiche da clima preelettorale, certo: ma a farne le spese sono gli uomini in divisa. Come l’apparentemente imperturbabile assistente capo di Massa, con almeno 20 anni di servizio, che oltre a lavare la divisa dagli sputi del manifestante deve comunque preoccuparsi di possibili conseguenze, personali e professionali di una giornata da dimenticare. Ecco: con quale stato d’animo quell’agente parteciperà al prossimo servizio di ordine pubblico cui sarà comandato? Tutto questo mentre l’aggressività contro gli agenti aumenta.
Secondo i dati forniti a Panorama da Felice Romano, segretario generale del sindacato Siulp, nel 2014 le forze dell’ordine hanno seguito 9.490 manifestazioni di vario genere. In 567 di queste, il 6 per cento, si sono verificate violenze, con 134 arrestati e 3.744 denunciati. I feriti dall’altra parte sono stati 395 (310 della Polizia, 67 dei Carabinieri, 9 della Guardia di finanza e 9 della Polizia locale). Dal 2010 al 31 dicembre scorso gli agenti feriti sono stati 2.660: quasi due al giorno, una guerra. Il malumore e il malessere sono diffusi, come lo scoramento. Lo si è visto bene nelle proteste del 1° maggio a Milano. «Il poliziotto deve far rispettare la legge. E quel giorno potevamo fermarli». La pensa così un caposquadra del reparto mobile. Era al G8 di Genova nel luglio 2001, e di cariche ne ha fatte centinaia. Per lui i black-bloc che hanno scatenato la guerriglia contro l’inaugurazione dell’Expo non avrebbero dovuto essere un problema: «Li carichi, li arresti e li processi». E invece? «E invece per la sentenza Diaz, per il decreto svuotacarceri, per il reato di tortura e per colpa di voi giornalisti i nostri funzionari ci comandano di restare fermi. Eravamo dieci volte più di loro, potevano prenderli tutti ma li abbiamo lasciati liberi di fare quel che volevano». In realtà, come ha spiegato il capo della Polizia Alessandro Pansa, la scelta di non caricare a Milano è stata dettata dal buon senso. Ci sono state devastazioni (ma si possono definire limitare ricordando il G8 di Genova), nessun ferito, e i black-bloc dopo essersi sfogati si sono dileguati. La Polizia ora sta cercando di identificarli attraversi i filmati. Ma per il «celerino» anche quella decisione segnala che qualcosa è cambiato. «Dopo Genova l’ordine pubblico è radicalmente mutato» dice. «Siamo più addestrati, meglio equipaggiati, e certe leggi, come il “daspo differito”, ci aiutano a lavorare meglio. Però 20 anni fa scendevo in piazza con la paura di farmi male, oggi invece ho paura dei processi. Se finisci davanti a un giudice, quello non chiede al manifestante quanti sanpietrini ti ha tirato, ma domanda a noi perché lo sfollagente lo ha colpito sul collo invece che sulla spalla».
Il problema è l’incertezza delle leggi, acuito dalla mancanza di protocolli operativi chiari, che blocca l’iniziativa di tanti agenti. Lo ammette senza reticenze un responsabile della squadra volanti di una cttà del centro Italia: «La Polizia invecchia, i miei ragazzi di pattuglia hanno tutti 40 anni, moglie, figli. Le Procure hanno linee diverse da città a città, e se a Milano ti convalidano l’arresto, qua magari t’indagano. E allora può capitare che la volante arrivi a rissa conclusa, a lite sedata, a scippo consumato. Perché basta una denuncia per mettere a rischio lavoro, famiglia, vita». Lo sa bene un agente scelto che fa i turni «in quinta», cioè sera, pomeriggio mattina e notte spalmati su cinque giorni. Chiamato con un collega di pattuglia a intervenire su un banale dissidio in un bar, per il mancato pagamento di una birra, l’operatore si è trovato a gestire una situazione che nessun manuale contempla. Allo straniero, ubriaco o drogato, è bastato vedere le uniformi per dare in escandescenze e brandire la bottiglia. Minacciava chiunque gli si avvicinasse. «Faceva salti di un metro, cercava di colpirmi» racconta l’agente a Panorama. «Cosa potevo fare? Intorno a noi c’era tanta gente, altri si erano affacciati alla finestra. In molti avevano il telefono cellulare puntato su di noi». L’agente è scappato, schivando i fendenti e svicolando intorno alla volante. «L’uso della pistola, in questi casi, non è contemplato» spiega il poliziotto. «Se lo avessi colpito con lo sfollagente avrei certamente esacerbato la sua reazione, rischiando di vedermi poi al tg della sera». Altre armi, come il «taser», cioè lo storditore elettrico, o lo spray urticante, non sono ammessi per gli agenti. Così le uniche armi restano pazienza e buon senso. Dopo un’ora di tira e molla, gli effetti di alcol o droga si sono attenuati. E l’arresto si è trasformato in una improvvisata seduta psichiatrica, con la quale il poliziotto è riuscito a convincere lo straniero a farsi ammanettare e portare in ospedale. Per la cronaca, grazie alla legge svuotacarceri, invece dell’arresto, la volante ha potuto procedere soltanto con una denuncia a piede libero. Episodi come questo, tutti all’ordine del giorno, hanno cambiato il modo di lavorare delle forze dell’ordine. Lo rivela a Panorama un ispettore della vecchia guardia, per anni colonna della squadra mobile di una città toscana: «Oggi non usciamo in strada come un tempo, meglio affidarsi alle intercettazioni telefoniche. Stiamo mesi in cuffia nella sala registrazioni e quando il magistrato ci dà il via andiamo a colpo sicuro, senza rischi e sorprese». Lo dice con amarezza l’ispettore, ormai non lontano dalla pensione ma ancora con la voglia di acciuffare i criminali. E racconta un episodio di pochi anni fa, che gli ha segnato l’esistenza e la carriera: «Io e la mia squadra avevamo effettuato perquisizioni che avevano portato al sequestro di droga e all’arresto di alcuni spacciatori. Qualche giorno dopo, mentre fermavo per strada altri spacciatori, uno di loro mi disse: “Fai pure, che tanto il prossimo sei tu”. Fu così che venni a sapere che alcuni dei tossici che avevamo arrestato mi avevano denunciato per lesioni, minacce e, una donna, persino per tentata violenza sessuale». Inevitabilmente la Procura del capoluogo aprì un’inchiesta, che ovviamente ebbe ampio risalto sui giornali locali. Quindi arrivarono il rinvio a giudizio e il processo. Terminato cinque anni dopo: un’assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto e il rinvio degli atti alla stessa procura perché procedesse, nei confronti dei tossici, per il reato di calunnia, ormai però prescritto. «Intanto però la mia vita è stata un inferno. Piangevo di nascosto, non potevo portare mia moglie e mia figlia nemmeno a mangiare una pizza, perché rischiavo di essere licenziato e cercavo di non spendere. Un inferno. Che m’è costato 18 mila euro di avvocati». Tra l’altro, il ministero dell’Interno risarcisce solo parte delle spese legali sostenute per procedimenti riguardanti l’attività di servizio: quei soldi, però, all’ispettore, non sono arrivati. Lui ancora oggi, giorno e notte, esce di turno e dà la caccia ai criminali. Con quale stato d’animo? Scherza: «Con una mano davanti e una dietro».
Da Panorama del 13 giugno 2002
Quella notte del 21 luglio, mentre i suoi colleghi del Settimo nucleo sperimentale antisommossa sfondavano il portone della scuola Diaz, quartier generale dei no global, Andrea Ceccarelli, vicesovrintendente della Polizia di Stato, stava dormendo sulla nave turca che ospitava i poliziotti durante il G8. Dal mare, Genova gli sembrava molto più tranquilla della zona rossa che aveva difeso tutto il giorno. Quella stessa notte S.M., agente scelto, sudava nel letto dell ospedale San Martino acceso dalla febbre e dall orticaria, causata dai lacrimogeni che aveva respirato durante gli scontri del giorno prima. Per motivi diversi Andrea e S. non erano con i loro compagni quel sabato notte e per questo erano stati motteggiati: «Vi siete imboscati per evitare i guai». Peccato che il 6 maggio i magistrati genovesi Francesco Pinto ed Enrico Zucca abbiano spedito anche a loro l avviso di garanzia. Indagati, insieme con altri 46 colleghi del Settimo nucleo (corpo speciale, creato per il G8 e guidato da Vincenzo Canterini), perché «con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, cagionavano lesioni personali varie anche gravi a persone presenti nel predetto edificio». Tutto perfetto, se non che Andrea e S. in quella scuola non sono mai entrati. «E' la dimostrazione» spiega il loro difensore, l avvocato Piero Porciani, «di come la magistratura colpisca la polizia pregiudizialmente, senza preoccuparsi di individuare le singole responsabilità. E' chiara l intenzione di distruggere un nucleo costituito per fronteggiare le violenze di piazza». Ceccarelli, 27 anni, fisico ben piantato da ex giocatore di rugby, oggi caposquadra al Primo reparto mobile di Roma, spiega: «I magistrati non mi hanno mai interrogato. Sono un ufficiale di polizia giudiziaria, se i pm mi avessero chiesto conto dell attività svolta a Genova, avrei potuto chiarire tutto con un annotazione». Altrimenti si aspettava di essere ascoltato come persona informata dei fatti: «Avrei spiegato ogni cosa. Non era necessario indagarmi». E come prova della sua estraneità porta l ordine di servizio che in quei giorni l aveva «retrocesso» dai rambo del Settimo nucleo al normale servizio di ordine pubblico in zona rossa. «Mi ero addestrato tre mesi e quando mi hanno spostato ci sono rimasto male» ammette Ceccarelli. Persino più paradossale la situazione di S.M. che la notte tra il 20 e il 21 luglio, alle 2.46, era stato ricoverato per la febbre scatenata dalla reazione ai gas lacrimogeni che lo avevano «bruciato» negli scontri. Gli antistaminici non avevano alleviato l irritazione né abbassato la febbre, così i sanitari della polizia ne avevano consigliato il trasferimento in ospedale. Il medico di guardia, Fiorella Altomonte, lo aveva ricoverato per un «importante reazione orticarioide diffusa a tutte le superfici esposte e rialzo febbrile». Prognosi: cinque giorni. Solo il 22 luglio, molte ore dopo i fatti della Diaz, S.M. otteneva di essere dimesso. Tornato sulla nave, per lui la vicenda della scuola diventava solo un racconto colorito dei colleghi. Sino a quando ha scoperto, nei giorni scorsi, dall avviso di garanzia, di aver partecipato a quell assalto. Dal letto di un ospedale.
(Gianluca Ferraris)