Tecnologia
April 18 2023
Si registrano miagolii di sollievo collettivi: gli umani hanno smesso di piantare il cellulare davanti al muso dei loro amati felini. Ora ne riprendono la pigrizia congenita, e le occhiatacce torve, da lontano. Dal lato opposto della stanza. Mentre i gatti esultano, i bambini possono giocare in pace, senza smartphone a mezzo centimetro dal viso che ne intasano i movimenti, ne ingombrano lo spazio vitale. Non c’è scampo per fiori né tramonti, per ogni cosa viva o inanimata, buia o illuminata: il distante, quanto non è a portata di sguardo, adesso lo è dentro uno schermo. Siamo diventati la generazione zoom, quella che all’universale preferisce il particolare, dell’intero predilige una porzione, dell’insieme gradisce il dettaglio. Prima reclamavamo il grandangolo, l’ariosità dei luoghi dopo le claustrofobie della pandemia. Adesso, ritrovato il contatto con la normalità, ne enfatizziamo la straordinarietà, per assorbire il massimo del minimo.
Siamo novelli Jeff Jefferies, il reporter infortunato raccontato dal capolavoro di Alfred Hitchcock, La finestra sul cortile. Solo che anziché starcene bloccati su una sedia a scrutare i dintorni col teleobiettivo, applichiamo al movimento la voracità di vicinanza. Gli ultimi modelli di smartphone, oramai formidabili spie delle tendenze contemporanee - e loro propulsori, per esigenze di marketing - assecondano questa voglia di prossimità, di ritaglio del tutto in favore di una parte. Hanno, di serie, zoom portentosi.
Prima zoomare significava sgranare, perdere qualità dello scatto o del video, renderlo pubblicabile sui social con la complicità di filtri e abbellimenti. Oggi i sensori fanno miracoli, a volte meglio delle macchine di alta gamma, perché la solita intelligenza artificiale ci mette l’algoritmo: arriva a correggere i difetti, a magnificare i colori, a raddrizzare l’imperfetto. A incantare i professionisti: «L’esperienza con Xiaomi 13 mi ha davvero impressionato» spiega Steve McCurry, artista dell’immagine di fama globale, i cui scatti sulle copertine del National Geographic hanno ipnotizzato il mondo.
Samsung, invece, ha chiesto al fotografo Nicola Torrisi, attivo su TikTok con l’account Befric (circa 600 mila follower), consigli pratici per usare al meglio questi nuovi strumenti. Tra i vari suggerimenti, scattare in modalità raw, «per avere più flessibilità in post-produzione»; «cercare sempre una luce morbida, all’alba e al tramonto, oppure l’ombra o un riflesso». Ancora, «creare profondità di campo per isolare ulteriormente il soggetto. Avvicinarsi fino al limite della distanza di messa a fuoco o allontanarsi e zoomare».
In generale, la buona notizia legata a tale fenomeno è un egocentrismo smorzato, un recupero di una qualche autenticità: anziché rivolgere l’attenzione verso noi stessi, la dirigiamo a ciò che ci circonda, tentando di coglierne la meraviglia. Con una scarsa dose d’innocenza: miriamo a catturare like, una propensione di cui nessuno si sorprende più. Dunque, si è ribaltata la gerarchia delle priorità: il selfie non disdegnava la vaghezza per levigare i difetti del volto; lo zoom esige nitidezza, cristallina chiarezza. È enfasi sul vero. È rappresentazione, comunque della realtà. Con un grande effetto collaterale: in questo panorama di teleobiettivi tascabili, di smartphone avanzati, ad arretrare è la privacy. A nostra insaputa, possiamo essere il soggetto di un primo piano, i protagonisti di un video. La finestra sul cortile, al confronto, è preistoria del voyeurismo. Non resta che prenderne atto: se pensiamo che ci siano pezzi di mondo capaci di sfuggire a uno sguardo indiscreto, quantomeno negli spazi pubblici, siamo di un’ingenuità quasi infantile. Essere adulti, perciò, significa imparare a rispettare le vite degli altri.