Televisione
June 17 2021
Gianluca Gazzoli da diciassette anni vive con un defibrillatore sotto il petto. Da quando ne ha quindici deve fare i conti con le aritmie cardiache che, senza preavviso, sono entrate di prepotenza nella sua vita. Ha dovuto imparare a vivere in equilibrio, così, senza che nessuno gli insegnasse come fare. Giocava a basket, sognava di diventare un campione e proprio sul campo sono arrivate le prime scosse, vere e proprie esplosioni interne che gli facevano perdere per interminabili secondi le funzioni vitali. «Ma sono stato fortunato perché il cuore riprendeva a battere: a molti è successo una volta sola e non è più ripartito», spiega a Panorama.it il popolare conduttore di Radio DeeJay e volto tv in ascesa, che ha deciso di raccontare la sua storia in un libro, Scosse (edito da Mondadori). Non ne aveva mai parlato prima e lo fa ora, a sette anni dall'ultima scossa, rompendo il tabù delle malattie cardiache, di cui ancora si parla poco e male. E la mente corre subito all'arresto cardiaco in mondovisione di Christian Eriksen, durante Danimarca-Finlandia a Euro 2020, al quale – notizia di oggi - verrà impiantato un defibrillatore automatico. Proprio come quello di Gazzoli.
Gianluca, partiamo proprio dal "malore" di Eriksen, a proposito dal quale lei ha scritto: "Sembra assurdo che una cosa del genere possa accadere ma accade". Che impressione le ha fatto vedere quelle immagini?
«Ero in diretta con il mio programma mentre è successo, ho sempre un occhio alle news e quelle immagini mi hanno fatto davvero molto effetto, perché ho rivisto un qualcosa che ho vissuto in prima persona e ho provato per la prima volta ad immaginare cosa hanno provato le persone intorno a me quando stavo male in campo. Inoltre, non ti aspetteresti mai che una cosa del genere possa accadere ad un atleta in perfetto stato di forma, ultra controllato e che compete ai massimi livelli di uno sport».
Sempre su Instagram, ha aggiunto: "Il defibrillatore, scaricato correttamente e tempestivamente, può aumentare del 75% la possibilità di salvezza. Lo dico per esperienza personale. Succede ad atleti ultra controllati e succede a tante altre persone. Solo in Italia sono 200 al giorno". Non pensa che si ne parli poco (e spesso male) delle malattie cardiache?
«Sono assolutamente d'accordo. Fortunatamente c'è stato un lieto fine, spero che quello che è accaduto riporti il tema al centro del dibattito collettivo, che è ciò che sto cercando di fare anch'io nel mio piccolo da quando ho raccontato quello che mi è accaduto. Ogni volta che ci si affaccia su questo argomento si scoprono tantissime storie ma soprattutto tanti drammi che potrebbero essere evitati con la giusta informazione e sensibilizzazione. È una questione culturale e in Italia questa cultura non c'è ancora».
Veniamo a lei. Dieci anni fa lei era a Jaipur, in India, e un indovino le predisse una serie di cose – molte delle quali si sono poi avverate - e senza conoscere la sua storia, le parlò dei suoi problemi al cuore, «un cuore che batte molto forte, una disfunzione generata dalla sua sensibilità». La sua prima reazione quale fu?
«Mi guardai la maglietta, convinto che avesse potuto vedere le cicatrici sul petto, invece nulla. Sono quelle circostanze difficili da spiegare a livello razionale. Una spiegazione non c'era e infatti è una storia che non ho mai raccontato a nessuno prima del libro».
Che ricordo olfattivo ha di quel momento?
«Un profumo intenso, speziato. Il baba era un gioielliere e del suo bazar ricordo un caldo umido. Alla fine dell'incontro mi diede di un topazio che poi ho fatto incastonare in un bracciale».
Il libro si apre proprio con questo incontro speciale: oggi ha 32 anni, ha realizzato molti obiettivi professionali, si è sposato ed è papà di una bambina. Perché ha deciso di scrivere Scosse proprio ora?
«Perché era arrivato il momento giusto per farlo. Prima volevo realizzare delle cose, raggiungere certi traguardi, lanciare dei messaggi e dimostrare che nonostante tutto potevo mordere la vita. Per questo, quando l'ho raccontato, per molti è stato come un colpo di scena. Mai ho pensato, nemmeno per un minuto, di usare la mia storia per suscitare pietismo: io non sono la mia malattia».
Scosse è la storia di tante cadute e dei modi che ha trovato per rimettersi in piedi. Chi era il Gianluca Gazzoli adolescente che sui campi da basket ad un certo punto venne schiantato a terra dal suo cuore?
«Ero un ragazzino che, come tutti gli altri, tendeva ad omologarsi, a fare gruppo, a vivere le passioni in modo totalizzante. Tutto filava liscio fino a quando arrivò la carta dell'imprevisto. Durante le partite mi accasciavo, il mio cuore superava i 300 battiti, si fermava e poi riprendeva a battere».
E quando si rialzava, cosa accadeva?
«Ripartivo come se nulla fosse accaduto. Il mio sguardo era di sfida: "Avete visto? Io non ho nulla"».
Se ci ripensa, cosa le viene in mente?
«Quanto sono stato strafortunato. Il mio cuore si fermava e poi ripartiva, a molti è successo una volta sola e non ha più ricominciato a battere».
La sua tendenza ad abbracciare le sfide è proseguita anche dopo, quando le hanno impiantato un dispositivo anti tachicardico.
«Sì, l'ho rifiutato per molto tempo anzi, l'ho apertamente ho sfidato. E sfidandolo tante volte, ho perso e il defibrillatore si è azionato. L'ultima volta è successo sette anni fa circa».
Ha capito cosa c'era dietro quella voglia di sfidare la vita?
«C'era una grande debolezza, la paura, la voglia di non essere visto e trattato diversamente dagli altri: volevo essere a tutti i costi come loro, invece non poter fare le stesse esperienze dei miei coetanei, non poter giocare con gli amici o anche solo andare a Gardaland, mi provocava rabbia e disagio. C'è voluto un lungo percorso di accettazione per capire che quell'atteggiamento era tossico».
Quando ha cambiato prospettiva?
«Quando ho capito che la diversità non era un limite ma un punto di forza, un qualcosa che ci rende unici. Ma non è stato semplice arrivare a capirlo».
La paura ha imparato a tenerla sotto controllo?
«L'ho addomesticata nel tempo e ora vivo più serenamente».
L'incoscienza?
«Da ragazzo prevaleva. Il fatto di voler sfidare i miei limiti non mi faceva pensare alle conseguenze, alle scosse, all'idea di ritrovarmi per terra da un momento all'altro in stato di incoscienza e poi dover affrontare gli attacchi di panico che ne conseguivano. Col tempo, ho capito che non potevo perdere ma vivere: la comprensione dei limiti mi ha aiutato e l'ho capito il giorno in cui mi sono fermato un minuto prima di fare bungee jumping».
Oltre ad una componente fisica, lei spiega che le sue aritmie erano causate anche da un fattore emotivo.
«Sì, anche l'emotività contribuiva a farmi andare in cortocircuito il cuore. Per questo, per lungo tempo ho considerato la mia sensibilità un limite enorme. Oggi, dopo tante batoste, ho compreso che invece sensibilità e capacità di entrare in empatia con gli altri sono una forza».
Le reazioni di chi ha letto il suo libro quali sono state?
«In molti mi scrivono per dirmi che si sentono meno soli. E li capisco: se quindici anni fa avessi avuto un esempio, la storia di una persona con cui confrontarmi, mi sarei sentito meno solo. Altri invece mi dicono che si stanno riconoscendo in ciò che ho scritto: lo fa chi soffre di patologie simili e anche chi non ha malattie come la mia, perché in fondo ognuno ha le sue scosse, vere o metaforiche».
Si è messo a nudo anche rispetto alla sua famiglia. Loro come hanno reagito?
«Avevo paura soprattutto della lettura di Sara, mia moglie, e di mia mamma. Ho scritto ciò che non avevo mai detto nemmeno a loro e per questo ero curioso e impaurito: invece sono state felici, si sono commosse e la loro approvazione è stata importante».
A sua figlia Rachele come racconterà che lei è un padre speciale?
«È ancora troppo piccola, ci vorrà del tempo per spiegarle che papà ha qualcosa dentro il petto che lo controlla a distanza, che qualche volta suona persino – emettendo dei bip – e che può provocare delle esplosioni interne molto forti. Troverò le parole per farlo nella maniera migliore».
Ha paura di averle trasmesso questa patologia?
«Il timore resta latente. Anche perché da quando è uscito il libro ricevo decine di messaggi di persone che mi raccontano le loro storie o mi segnalano altre sindromi di cui non ero a conoscenza. Questo mi ha costretto a rimettere in discussione delle cose, mi sono sorti dei dubbi, tanto che di recente ho fatto dei test genetici al Niguarda. Sono uno che vive la vita a mille all'ora ma oggi sto più attento e cerco di non spingere troppo».
Linus, il direttore artistico di Radio DeeJay nonché suo "capo", cos'ha detto di Scosse?
«Che ho fatto bene a raccontare la mia storia, a condividerla. Lui già la conosceva, ma non così nel dettaglio».
Lei ha fatto una lunga gavetta prima di approdare a Radio DeeJay, dove ora conduce MegaJay. Come l'ha convinto Linus?
«Credo che Linus mi abbiamo scelto dopo aver visto il mio percorso. Per me Radio DeeJay è la squadra di calcio che tifavo da bambino, il posto dove avrei voluto giocare se fossi approdato nella serie A delle radio. Per arrivarci ho seminato tanto, ho provato a crescere e ad alzare l'asticella. Uno dei più grandi fraintendimenti di questi anni è pensare che dall'oggi al domani si ribalti tutto, che qualcuno ti stenda il tappeto rosso e che arrivi il risultato. Non è mai così».
Senza la gavetta sarebbe arrivato dov'è ora?
«No. La mia fortuna è stata quella di non avere avuto un'esplosione immediata ma aver costruito un percorso. La mia storia è questa, da sempre: apro una porticina ed entro dal retro, poi faccio un passo alla volta per uscire dalla porta principale e restare da protagonista».
Dopo aver conquistato il suo posto al sole in radio, ora punta alla tv?
«È un mondo complicato, lo so, ma è un mio sogno e mi piacerebbe fare un'esperienza nuova che sia coerente con il mio percorso. Sono una persona determinata ma non sgomito a tutti i costi. Vorrei che nessuno dicesse di me: "Oh, guarda che stronzo quel Gazzoli"».
Il provino per la conduzione di X Factor l'ha fatto?
«No. Ma qualche anno fa ho fatto quello per l'ExtraFactor. Però quando Alessandro Cattelan ha annunciato l'addio al programma, mi è esploso il telefono per i messaggi di tanta gente che mi diceva di provarci, che quello era un ruolo adatto a me. Le variabili in gioco però sono tante».
Cosa le piacerebbe fare?
«Tante cose. Mi piace raccontare storie, creare empatia con il pubblico, godermi l'adrenalina della diretta. Mi piace la tv generalista, quella trasversale che parla a tutti. Io punto a crescere un po' alla volta, non penso che basti avere un po' di follower per improvvisarsi e diventare bravi conduttori. Coerenza e credibilità per me sono fondamentali».