Lifestyle
June 05 2019
I termini di paragone tra sistema moda italiano e quello francese. Le aziende con lo stilista imprenditore e quelle con i manager più creativi del designer. La crescita quantitativa contro quella qualitativa legata all’innovazione, alla sostenibilità e tracciabilità. Le nuove vie del commercio al tempo della Brexit, dei dazi e dello scontro Stati Uniti-Cina. È un momento di grande riflessione per la moda globale ma lo è ancora di più per quella italiana che dovrà mettere a dura prova la sua resilienza. Di questi temi, Panorama ha parlato con Giorgio Armani, la figura più rappresentativa della moda tricolore, nonché il timoniere di un gruppo solidissimo che ha chiuso il 2017 a 2.335 milioni di euro di fatturato e con un patrimonio netto di oltre 2 miliardi. Ne è nata un’intervista illuminante sulle peculiarità della moda italiana, sul futuro della Giorgio Armani, con un annuncio: «Ci sarà una ritrovata armonia, un’unione dei marchi italiani che vedremo già a settembre con dei cambiamenti in calendario». E soprattutto con un’affermazione da leader maximo: «Al nostro sistema nazionale serve solo un po’ più di coraggio e di fiducia. Nessuno ci deve insegnare niente».
Partiamo da Armani imprenditore. Gli analisti di Mediobanca sostengono che la moda italiana vale il 4 per cento del Pil, che le nostre aziende sono solide ma hanno registrato crescite modeste negli ultimi anni. Invece, la moda francese cresce molto di più. Cosa pensa delle differenze tra i due sistemi?
Non possiamo paragonarli, sono due realtà completamente diverse e non si possono mettere a confronto i livelli di crescita. In Francia ci sono gruppi enormi, in Italia tante aziende gestite, come nel mio caso, in prima persona dai proprietari. Come imprenditore ho sempre pensato che fosse più equilibrato e sano crescere piano, ponderando
le scelte, per durare nel tempo. Credo di averlo dimostrato in questi ultimi quarant’anni.
Qual è secondo lei il valore aggiunto delle piccole dimensioni rispetto ai grandi gruppi?
La libertà di scelta, senza condizionamenti, senza la pressione di dover continuare a migliorare un risultato «gonfiato». La libertà che ti permette anche di decidere di decrescere, come abbiamo fatto negli ultimi anni, seguendo una precisa strategia, facendo delle scelte di qualità piuttosto che di quantità.
Pochi debiti, tanta liquidità: per gli analisti questa visione così prudenziale è un segno di debolezza perché limita la crescita. Lei come la pensa?
Forse per gli analisti no, ma per me ha funzionato. La liquidità è il motore dello sviluppo e poi, come ho già avuto modo di dire in molte altre occasioni, equivale a indipendenza e solidità: si può rimediare a situazioni impreviste, senza dover ricorrere a soluzioni estreme come vendere l’azienda, si possono cogliere sul momento opportunità importanti, soprattutto non bisogna dipendere da nessuno. Sarà anche una visione un po’ antica ma applicata al mio mondo e al mio prodotto funziona molto bene.
Altra «accusa» rivolta alle aziende italiane è lo scarso margine di libertà che viene dato ai manager nella gestione dell’azienda. Gli stessi manager italiani godono di maggiore fiducia quando entrano nei gruppi francesi. Le risulta?
Il fatto che io non faccia comunicazione sui miei manager o non dia loro visibilità non significa che non ricoprano un ruolo rilevante in azienda e non influenzino le mie decisioni. Io ho collaboratori molto bravi, che ho fatto crescere negli anni, e che stanno dimostrando di sapermi aiutare a fare scelte importanti. Personalmente diffido di quei dirigenti che lavorano solo per il proprio ego, con il rischio che non facciano davvero gli interessi dell’azienda.
Sempre Mediobanca ha rilevato che di 146 aziende di moda italiane con un fatturato di almeno 100 milioni di euro, il 40 per cento sono di proprietà straniera e il 15 sono controllate da gruppi francesi. Qual è il futuro del nostro sistema moda?
Credo che ci sia una ritrovata armonia, un’unione dei marchi italiani che vedremo già a settembre con dei cambiamenti in calendario (quello delle sfilate femminili, ndr). È un primo passo importante. Certo, finora non siamo stati bravi a fare squadra come i francesi, ma trovo che i segnali siano buoni e ci potrebbero esserci evoluzioni.
Ci potrebbe spiegare meglio? Sarebbe uno scoop...
In realtà non posso dire di più.
(Pare che alle ultime riunioni tra gli iscritti alla Camera della moda ci sia stata una nuova energia e un desiderio di fare sistema, a partire da una più razionale organizzazione del calendario sfilate, con una distribuzione, giorno per giorno dei nomi più importanti, ndr).
Nel 2016 lei ha voluto un nuovo ente, la Fondazione Armani. Ci può riassumere com’è organizzata, quali sono le sue funzioni e se ha già deciso chi la guiderà in futuro?
La Fondazione ha un doppio compito. Da una parte reinvestire i capitali a scopo benefico e dall’altra assicurare nel tempo che il gruppo si mantenga stabile e coerente con i principi che mi stanno
a cuore e da sempre ispirano la mia attività
di designer e imprenditore. Ma fino all’ultimo sarò
io a guidare l’azienda.
Lei ha dichiarato che la Fondazione «dovrebbe garantire l’armonia tra gli eredi». In che termini?
Mi sembra chiara la risposta. Per me sono importanti tutte le persone che hanno lavorato con me
e naturalmente la mia famiglia; non vorrei mai
che ci fossero tensioni. È importante che vengano salvaguardati i dipendenti. Per questo ho scelto volutamente un sistema che garantisca il superamento dei momenti di empasse e la Fondazione sarà l’ago della bilancia. Le decisioni saranno prese seguendo le mie linee guida che indicano la direzione e si basano su coerenza, lealtà
e fedeltà all’azienda.
A proposito di eredità, vede qualcuno che a livello creativo possa essere il suo successore?
Mi fanno spesso questa domanda. A oggi la risposta
è no, però sono attento. Mi sto ancora guardando intorno perché, come ho dichiarato a Londra due anni fa, non deve essere necessariamente italiano. La scelta è seria, importante. Certamente deve condividere e rispecchiare i valori che fino a oggi ho portato avanti e avere anche capacità imprenditoriali, cosa non facile, per non rischiare di «bruciare» l’azienda in poco tempo. Non è escluso che stia crescendo internamente.
Non crede sia stato un errore non allevare
un giovane Giorgio Armani?
Assolutamente no, ne sto facendo crescere tanti.
Interessante. Come vede la creatività italiana degli ultimi anni? E come è cambiata la figura del designer?
Negli ultimi anni ho avuto modo di vedere da vicino
il lavoro di molti giovani creativi promettenti. E per alcuni di loro ho messo a disposizione l’Armani/Teatro per presentare le sfilate. Li ho trovati freschi, rapidi, diretti. Rispetto al passato hanno strumenti tecnologici a loro disposizione, mezzi di espressione in costante crescita. Se penso che quando iniziai
negli anni ’70 non esisteva neanche la definizione
di stilista! Anche se oggi tutto appare accelerato sono convinto che un modo italiano di fare la moda
- ispirato e concreto, eccellente nella realizzazione – esisterà sempre e farà sempre la differenza.
Come sono i rapporti tra voi big del made in Italy. Con Prada, Dolce & Gabbana, Versace?
Sono migliorati, siamo più in sintonia di una volta.
Che cosa manca secondo lei al Sistema moda nazionale?
Un po’ più di coraggio e di fiducia. Nessuno ci deve insegnare niente.
Milano è all’apice della sua piacevolezza.
C’è qualcosa che farebbe in più?
Io farei qualcosa in meno e starei attento piuttosto
a non volare troppo alto. Milano dovrebbe cercare
di preservare la sua parte più intima, riservata
e generosa, e tutte quelle caratteristiche che l’hanno resa la bella città che è oggi. Non ha motivo di inseguire le altre grandi capitali, che al momento sembra avere sorpassato in classifica.
E al sindaco Sala, da esteta, cosa consiglierebbe?
Trovo che il sindaco abbia un’immagine molto discreta ed elegante. A dir la verità, ho poco da suggerirgli.
Nel 2019 Armani ritorna in Giappone, la passione estetica mai assopita. Che cosa significa questo nuovo passaggio in Oriente?
Ho sempre avuto un’affinità forte con il Giappone, per la sua cultura e la sua estetica serena e vibrante. Questo viaggio è un ritorno dopo molti anni in un Paese che mi ispira ancora oggi e a cui desidero rendere omaggio con la sfilata della collezione Giorgio Armani Cruise 2020, inedita. È anche un mercato molto importante che risponde con entusiasmo al mio stile e alla mia proposta. E Tokyo è l’epicentro principale di questo fenomeno. Il dialogo con i consumatori nipponici è per me fondamentale, perché basato su una comunanza di sentire.
A luglio ricorre il suo compleanno. Se dovesse ripercorrere le sue tappe a ritroso quali vorrebbe sottolineare?
Il viaggio in America e l’incontro con Obama, il 40° anniversario della nascita della mia azienda e la carica di Ambasciatore della moda per Expo nel 2015, gli Oscar del 1990 ricordati come gli Armani Awards e la nascita di Emporio e del simbolo dell’aquila. E poi l’inizio di questa meravigliosa avventura con Sergio Galeotti negli uffici in Corso Venezia a Milano.
La sua moda va oltre le mode. Una forma
di solitudine da numeri primi. Le pesa tale solitudine o lo rafforza?
Mi pesa, ma essendo legata a una particolare visione delle cose, è sempre stata anche la mia forza.
Che cosa la annoia della modernità?
Il chiasso e la velocità eccessiva che non lascia tempo alla riflessione.
La Brexit, i dazi di Trump, le incertezze politiche generali. Qual è la sua lettura da imprenditore e da cittadino?
Secondo me creare divisioni non aiuta mai, è più importante creare ponti, dialogo. Io nel mio piccolo l’ho dimostrato con l’evento Emporio Armani Boarding di Linate che voleva essere un messaggio di libertà, apertura e condivisione.
Lei ha avuto tutto, successo, soldi, stima, autorevolezza a livello mondiale. A che cosa ha rinunciato per tutto questo?
Forse avrei potuto riservare più tempo a me stesso. Poi penso che, in fondo, ognuno ha le proprie passioni e la mia è sempre stata il lavoro. Gli ho dedicato consapevolmente tutte le mie energie: è la mia vita ed è diventato il mio tempo.n
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