Giovanni Ciacci: "Vi porto nel camerino delle star"

Da Mariangela Melato a Valeria Marini, da fotografi cult come David LaChapelle a Giorgio Albertazzi. È infinita la lista dei personaggi con cui ha lavorato Giovanni Ciacci, costumista di successo e oggi amatissimo tutor di Detto fatto, con Caterina Balivo. Una parte della sterminata quantità di aneddoti e incontri di vent’anni di carriera li ha raccontati in Divina, il libro edito da Vallardi (sabato lo presenterà ad Alessandria, da Mondadori, domenica a Torino da Scenario Libri e martedì gran finale alla Mondadori di Piazza Duomo a Milano, con la sodale Balivo). Un mix di consigli per valorizzare la propria femminilità e un’incursione imperdibile nei camerini delle grandi dive italiane e straniere.

Giovanni partiamo da una domanda apparentemente banale: chi è e cosa fa un costumista?

Per definizione è quello che decide l’immagine di un progetto che sia in tivù, a teatro o al cinema. Assieme al regista sceglie gli abiti per creare un personaggio, poi lavora in team con parrucchieri e truccatori. Penso a Cate Blanchett in Blue Jasmine o donna Irma della serie Gomorra, due personaggi che non ho curato io ma che mi hanno molto colpito negli ultimi tempi: dietro ogni protagonista c’è una costruzione pazzesca.

Tu sei molto trasversale e sei passato con disinvoltura dal cinema al teatro fino alla tivù. Come hai fatto?

Penso di essere l’unico in Italia ad aver coperto tutti i campi, dal curare i servizi fotografici per le riviste – ho lavorato anche con Playboy - al teatro impegnato. Faccio il mio lavoro da quando ho 18 anni: ho fatto grandi incontri, sono stato fortunato e soprattutto ho studiato molto. Gli improvvisati in questo lavoro durano poche stagioni, per fortuna.

Apriamo l’album dei ricordi. L’esperienza teatrale a cui sei affettivamente più legato?

Tutti gli spettacoli con Massimo Ranieri, dal Sistina allo Strehler: mi ha insegnato tutto sul teatro, l’impegno, la cura per i dettagli. Lo spettatore deve vedere ogni particolare anche dall’ultimo posto in platea.

Un film a cui tieni particolarmente?

Diversi, ma voglio citare Bambola di Bigas Luna perché è diventato un cult anche grazie alla ”cavalcata della mortadella” di Valeria Marini. Da quel film in poi non l’ho più mangiata (ride). È stata un’esperienza divina: Luna era strepitoso, c’era Anita Ekberg, è un mondo che non si ripeterà mai più. Un giorno sul set arrivò Ellen von Unwerth, una fotografa pazzesca, per fare un servizio: correndo verso i camerini per prendere dei vestiti centrai in pieno una porta d’acciaio e finii al pronto soccorso. Valeria mi fulminò con gli occhi: “Proprio oggi ti dovevi fare male?”.

Quanto alla tivù nel tuo libro, Divina, citi spesso i Festival di Sanremo.

Però uno dei programmi cui sono più legato è Francamente me ne infischio, di Celentano. Lì è cambiato modo di fare tivù: si spengono le luci del varietà alla Fantastico e si passa al buio della denuncia sociale. E poi sono legato a tutti i miei Sanremo: l’emozione dell’Ariston è unica e travolgente. Durante l’ultimo che ho fatto, nel 2010, ero talmente teso che per staccare scesi al cinema sotto l’Ariston e guardai due volte Avatar.

A proposito di Festival, è tua l’intuizione del mega abito di Antonella Clerici indossato nel 2010?

Sì, è una mia idea. Quell'abito rappresenta la donna che arriva dalla provincia, che lavora, che ce la fa ad arrivare al vertice. È passato alla storia delle tivù, era un’esplosione di gioia. Antonella doveva indossarlo durante l’ultima puntata, ma in prova le si sono illuminati gli occhi. Bonolis, che conduceva, voleva un pranzo di matrimonio napoletano e io gli ho servito una torta monumentale. Mi ricordo ancora la faccia di Lina Sotis, che entrò in camerino pochi minuti prima della diretta: “Antonella hai vinto”. 

Prima del 2010 ne hai fatti diversi di Sanremo.

Con Valeria Marini, Claudia Koll e prima ancora con Anna Marchesini e Orietta Berti. Con Orietta ridiamo ogni volta che ci incontriamo: una volta si arrivava a Sanremo in vagone letto e durante il viaggio, di notte, rubarono la sua valigia rosa con tutti i vestiti. Nella cabina accanto c’era Don Lurio che non si accorse di nulla.

Perché scelgono proprio Giovanni Ciacci?

Perché risolvo problemi, percepisco cose che molti registi o autori tivù non vedono, troppo presi da altri problemi da gestire. La mia devozione al personaggio o al progetto è totale, dedico tutto me stesso. A Myrta Merlino, ad esempio, controllo tutto, anche che la tazza sia girata in un certo modo.

A proposito della Merlino, nel libro racconti di un cambio di microfono davvero speciale.

Durante una registrazione il microfono non funzionava e andava cambiato in pochi minuti: l’unico posto per farlo era lo studio del Tg di La7, in quel momento vuoto, dove però non c’erano paraventi. Così Myrta s’infilò sotto la scrivania del telegiornale. Quando l’abbiamo raccontata a Mentana è scoppiato a ridere: “Se l’avessi saputo avrei fatto partire per scherzo la sigla dell’edizione straordinaria”, mi ha detto.

Oltre che a Myrta Merlino, se molto legato anche Caterina Balivo, con cui lavori a Detto Fatto. Che rapporto avete?

Speciale. È ironica, curiosa, lavora come una pazza. Il mio sogno è vederla a Sanremo: quando la vedrò, finirò la carriera. Tra l'altro tutte quelle con cui ho lavorato ci sono arrivate, dunque porto bene. Quest’anno c’è il mio amico Carlo Conti, una forza della natura, e sono convinto che sarà un grande Sanremo. Pensa che era il deejay della discoteca dove andavo a ballare da ragazzino il pomeriggio: per il suo matrimonio ho trovato una vecchia cassetta audio in cui lui parlava e glie l’ho fatta riversare su dvd.

I tuoi amici sono tutti del mondo dello spettacolo?

Sono autori, produttori, e personaggi. Per me è normale andare in balera la domenica sera con Barbara D’Urso o a pranzo con la Venier: sono persone che frequento da sempre, con cui abbiamo rapporti di grande affetto non solo lavorativi.

Tornando al libro, ci sono molti aneddoti gustosi. Una volta ti sei persino intrufolato nel camerino di Joan Collins.

Lei non voleva incontrare nessuno, io invece volevo conoscerla. Bussai e mi aprì non so più quale marito. Quando dissi che ero il costumista di Sophia Loren si spalancò la porta: lei è pazza di Sophia e finì che restai lì per quattro ore dovendo pure darle un punto sull’abito, all’altezza del decolté. Mi raccontò persino del provino di Cleopatra: presero Liz Taylor, che lei detestava.

A proposito della Loren, hai lavorato anche con lei.

La prima volta l’ho incontrata per portarle una collana in filigrana d’oro, con centocinquanta croci di diamanti realizzata da un famoso gioielliere. Mi tremavano le mani, lei si guardò allo specchio e disse alla sorella Maria: “Me pare nu camposanto”. Da quella collana non s’è più separata. 

Hai lavorato con tutte: chi ti manca?

Raffaella Carrà e Barbra Streisand: non ho mai lavorato con loro e in fondo va bene così. Non voglio sapere se la Carrà quando si alza è tutta riccia o se la Streisand porta il bustino contenitivo. Sono due miti e tali voglio che restino.

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