Politica
January 02 2020
Andreotti diceva che il potere logora chi non ce l'ha, sottintendendo dunque che stare al Governo fa bene alla salute. La massima del Divo Giulio è confermata dalle condizioni di Giuseppe Conte che, da quando è Presidente del Consiglio, sprizza benessere da tutti i pori. Se fino a due anni fa il premier era uno sconosciuto e non particolarmente brillante professore, oggi scintilla ai vertici della Repubblica e, a quanto pare, non vede l'ora di rimanere.
Lo ha confessato lui stesso a Repubblica in un colloquio che il quotidiano romano ha titolato con un "Resto in politica" fra virgolette. Non si tratta dunque di una deduzione giornalistica, ma di una frase diretta del presidente del Consiglio che, per chiarire meglio il suo pensiero, ha affidato alla testata diretta da Carlo Verdelli anche una seconda confessione: «Non sarò un altro Cincinnato». In pratica, Conte si è innamorato della poltrona che occupa dall'estate del 2018 e non ha nessuna intenzione di lasciarla per fare ritorno alla cattedra universitaria.
Sono trascorsi appena quattro mesi da quando Nicola Zingaretti, pur di fare il salto della quaglia e passare dall'opposizione alla maggioranza con i 5 stelle, ripeteva senza sosta una sola parola: discontinuità. All'epoca, per mandar giù il rospo grillino, come volevano i poteri forti e le cancellerie europee, il segretario del Pd sosteneva che «l'Italia non capirebbe un rimpastone» perché, spiegava, «il mandato della segreteria è per un governo di discontinuità e discontinuità è anche cambio di persone». Eh, già: il mandato della segreteria. Quanto valesse l'indicazione del cosiddetto vertice del partito lo si era già capito quando il Pd votò compatto contro l'alleanza con Luigi Di Maio e compagni, salvo poi rimangiarsi tutto appena se ne presentò l'occasione, cioè quando l'ex segretario Matteo Renzi, per pura convenienza politica e per evitare le elezioni, decise che il No al Movimento poteva diventare un Sì. Negli ultimi giorni di agosto, il partito di Zingaretti e quello di Grillo sembravano in una fase di stallo, pronti al muro contro muro pur di non cedere sul nome di Giuseppe Conte. Ci si poteva immaginare che il veto assoluto nei confronti dell'avvocato del popolo, il primo premier orgogliosamente populista e anche il primo ad aver accettato di essere più che un capo di governo un mediatore fra due opposte forze politiche, sarebbe caduto. Certo nessuno o quasi poteva pensare che Zingaretti dopo poco più di 100 giorni si sarebbe spinto addirittura a dire, in un'intervista al Corriere della Sera, che il presidente del Consiglio doveva essere considerato un punto fortissimo di riferimento per tutte le forze progressiste. Tradotto dal linguaggio curiale del segretario del Pd, questo vuol dire che in caso di crisi di governo o di rimpasto, non solo il Partito democratico riproporrebbe Conte a Palazzo Chigi (perché è «autorevole, colto e anche veloce e sagace tatticamente»), ma che addirittura potrebbe essere il candidato del Pd in caso di elezioni.
Certo, a rileggere ora i propositi di Zingaretti annunciati a mezzo stampa appena quattro mesi fa, viene da ridere. Dalla discontinuità si è passati alla continuità, quasi di Conte per l'eternità, come i diamanti. Ma se nel Pd è scoppiata la passione nei confronti del presidente del Consiglio al punto da ritenerlo un possibile candidato del partito, il premier non è rimasto impassibile, vincolato dal suo legame con i 5 stelle. Anzi, mentre Zingaretti apriva alla sua riconferma, Conte già annunciava, pure lui a mezzo stampa, di essere sempre stato più vicino alla sinistra che alla destra. Altro che populista e sovranista, al momento giusto il premier ha rivelato di essere solo progressista e ovviamente, per essere in linea con i tempi, rigorosamente riformista, come si conviene ai compagni degli anni Duemila.
La corrispondenza d'amorosi sensi fra segretario del Pd e premier naturalmente era stata preceduta da una serie di segnali rivelatori che avrebbero dovuto indurci a ritenere che Conte si preparasse a un'altra meravigliosa capriola. Dopo essere stato alla guida di un esecutivo con la Lega ed essere passato senza soluzione di continuità a uno di sinistra, l'avvocato del popolo aveva da subito fatto capire di essere interessato a tessere una relazione proprio con il Pd. Il Conte bis, fin dalle prime battute, infatti ha strizzato l'occhio più a sinistra che ai 5 Stelle. Prova ne sia che Di Maio, dopo pochi giorni dal varo della nuova maggioranza, ha dovuto lavorare duro per recuperare un ruolo. Quasi oscurato dal premier, ormai considerato un Elevato dallo stesso Grillo, il ministro degli Esteri ha rischiato l'eclissi a opera del nuovo re sole del Movimento. Ma chi avesse pensato che al capo del governo interessasse il posto di capo politico dei grillini si sbagliava. Conte non ha alcuna intenzione di fare il nuovo Di Maio e di guidare i 5 stelle. Il presidente del Consiglio ha ben altro in testa per il suo futuro. Non a caso, in Parlamento si agita l'idea di un gruppo a lui direttamente ispirato, anche se il premier nega. Il partito di Conte in realtà è già pronto anche senza la sua benedizione ufficiale e serve a traghettare i grillini delusi verso una nuova sponda. Obiettivo: il sostegno alla linea del premier, sia in caso di spartizioni di governo sia in vista di future elezioni. L'avvocato del popolo, insomma, si prepara a organizzare la difesa della sua poltrona. Del resto, nonostante le fibrillazioni della maggioranza, è lo stesso Conte a dire di essere tranquillissimo. Il premier infatti è convinto che comunque vada per lui andrà sempre bene, perché il potere logora chi non ce l'ha. Che i 5 stelle si dividano, che il Pd sia scosso da scissioni, poco importa. L'unico punto fermo resta lui. Almeno fino al 2023. Per quella data, magari altre cose potrebbero cambiare. Del resto, non è nel 2022 che si libera il Quirinale? Da avvocato del popolo a presidente del popolo il passo per l'uomo che si è appassionato al ruolo potrebbe essere breve.