La globalizzazione (e la dittatura) del cibo

Arriva il piatto unico, anzi universale, gastronomicamente corretto. Tra l’industria multinazionale del food, il McMondo, il cibo sostenibile secondo i dettami dell’ambiente e del salutismo, eccoci arrivati alla mangiocrazia globale, ultima tappa del pensiero unico, o pausa ristoro, tra cibo standard e cucina spettacolo. Hamburger di carne sintetica, panini coi grilli, patatine di farina di mosca; questo scenario si prospetta nell’alimentazione del futuro. A denunciare la globalizzazione del cibo è Diego Fusaro, vivace pensatore alternativo, che ha sfornato un saggio intitolato La dittatura del sapore (Rizzoli). Il tema del mangiare è diventato centrale nella nostra società opulenta: come discorso, come rappresentazione, come business, in un saliscendi tra denutrizione e obesità, anoressia e bulimia, fame e glicemia. Il mangiare è una delle principali ossessioni globali, soprattutto d’Occidente: in tv si parla continuamente di cucina, a tavola si parla ancora di cibo, in giro è tutto un viavai tra diete e arte culinaria; anche nell’alimentazione si insinuano come vermi solitari le manie ideologiche, ecologiste, salutiste ed esotiche, mentre sullo sfondo prende corpo lo scontro di civiltà tra l’hamburger e il kebab, o tra la pizza e il sushi.

Fusaro ricostruisce il filo rosso dei pensieri sul mangiare, ripercorre la filosofia alle prese col cibo e la cucina, l’antica divisione antropologica tra il crudo e il cotto; affronta le mode alimentari e le fobie del nostro tempo. Sullo sfondo resta la provocazione di Andy Warhol, «La cosa più bella a Firenze è il McDonald’s» e lo stesso vale a Tokyo, a Stoccolma, a Pechino e a Mosca. L’americanizzazione del mondo passa dai fast food, mentre le nostre città, a partire da Roma, sono ridotte a sguaiate mangerie. Un regime alimentare uniforme incombe sul pianeta; ma non sono così convinto che il mondo si stia uniformando nel cibo. A parte i dislivelli alimentari tra ricchi e poveri, tra occidentali e resto del mondo, ci sono troppe varianti per parlare di dittatura del piatto unico. Ci sono i vegani, che sono uno spazio di mercato rilevante e hanno più udienza rispetto a chi ha problemi di salute: trovi il cornetto vegano ma non trovi il cornetto senza zucchero per i diabetici; ovvero una scelta alimentare viene assecondata mentre una malattia sociale, pure molto diffusa, non viene presa in considerazione.

In secondo luogo sono saltati o addirittura sono rovesciati i paradigmi del passato: un tempo i poveri erano magri e i benestanti erano grassi. Oggi, almeno in Occidente, succede più spesso il contrario. E la cattiva alimentazione, lo street food, i fritti e l’overdose di birra, coca, pizze, snack e merendine appartiene più ai ceti meno abbienti e meno istruiti. In secondo luogo, non mangiano male solo i poveri; a volte, per ragioni di fretta, mangiano male anche molti businessmen, che non pranzano, non si siedono a tavola, ma «mettono qualcosa sullo stomaco», in una pausa breve tra una telefonata e l’altra. In terzo luogo, è vero che cresce il cibo spazzatura, o quello standard dell’industria globale del food; ma al suo fianco cresce anche la ricerca di cibi alternativi, la riscoperta della cucina povera, della dieta mediterranea, della cucina etnica; e poi la ricerca del cibo di qualità, per non dire dei ristoranti stellati o delle trattorie per buongustai, tra chef e gourmet. La riscoperta di frutta, verdura e pesce, rispetto a salumi, formaggi e carne è un altro segnale positivo. E così il minore uso di sale, zucchero, burro, dolciumi e le dimensioni ridotte delle pietanze.

Nelle società povere e arretrate un requisito positivo sono le porzioni abbondanti; nelle società più sviluppate, al contrario, si preferisce la qualità alla quantità: è vistosa la differenza tra i cannoli giganteschi dell’entroterra siciliano e i micropasticcini torinesi... E poi si è più esigenti nel bere, c’è tanta gente che affetta competenza nella scelta dei vini, che è comunque un indice di maggiore ricercatezza. Insomma non siamo in presenza di una sola tendenza, ci sono controtendenze che scompigliano il paesaggio e non lo rendono uniforme. E il nostro mangiare è peggiorato anche perché si cucina meno in casa, c’è meno famiglia e ci sono meno casalinghe. Resta invece, la pressione mediatica, pubblicitaria e pervasiva della grande industria del cibo, degli ipermercati, la retorica della sostenibilità arriva a eccessi grotteschi: quando per esempio di un prodotto non si vantano le sue qualità ma il fatto che sia eco-sostenibile, non lascia residui e vuoti a perdere.

E poi i cibi con gli insetti sono per ora più una minaccia, pur inquietante, che una realtà di massa. Certo è molesto l’eccesso di programmi televisivi culinari, troppe chiacchiere intorno al cibo, che sono una perversione del convivio classico: la tavola era l’occasione ma nei simposi fiorivano i dialoghi, come insegna Platone. Ora invece i dialoghi vertono direttamente sul cibo e sulle esperienze alimentari: il cibo diventa causa, occasione e scopo della cena, seppur accompagnata dal cazzeggio. Per non dire del ruolo centrale che hanno avuto le religioni nel cibo, che Fusaro giustamente sottolinea, fino a definire le religioni dei regimi alimentari sacralizzati. Noi figli della civiltà cristiana dovremmo forse ripartire dal pane, dal vino e dall’olio, l’abc della nostra tavola e delle nostre campagne. E comunque l’uomo non è solo ciò che mangia, come diceva Ludwig Feuerbach: è anche ciò che sogna, che pensa, che fa, che dice, che prega, che ama. Magnanimi prima che magnaroni.

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