Politica
November 09 2024
In Germania manca poco all’uscita della corposa autobiografia di Angela Merkel, intitolata Freiheit, libertà, e, fin dalle prime anticipazioni, è un tentativo in piena regola di fare i conti con la storia - la sua, di Merkel, ma non solo. Non vi è dubbio che con la cancelliera - che ha lasciato il posto a Olaf Scholz nel 2021, dopo 16 anni - il pendolo abbia oscillato tra il servo encomio e il codardo oltraggio. Merkel, cioè, è stata prima applaudita come leader indispensabile dell’Occidente, e poi criticata come la figura che ha posto le premesse per l’attuale dolorosissima crisi tedesca. L’abbraccio con la Russia, l’illusione dell’Eldorado cinese, la scommessa green e la fuga repentina dal nucleare, l’ingovernabilità dei flussi migratori, Volkswagen e altri colossi industriali tedeschi che annunciano chiusure delle loro fabbriche tedesche: tutto ciò e molto altro è messo in conto all’esponente oggi più famosa dei cristiano-democratici.
Merkel però non ci sta a questo gioco al massacro, e lascia agli atti del processo che sta subendo una sorta di memoriale difensivo. Freiheit copre ben 70 anni di vita e di storia, di cui una metà esatta trascorsi al di là del Muro di Berlino, e l’altra metà con l’unità tedesca. Ci sarà tempo e modo di apprezzare fino in fondo le oltre 700 pagine di questo libro, soppesando quello che dice, e come lo dice, e quello che invece non vi ha trovato spazio. Particolarmente interessante sarà il modo in cui la cancelliera presenterà il rapporto con la Russia di Putin. Era davvero convinta di poter addolcire Mosca ed europeizzare la Russia, forte della complementarietà tra tecnologia tedesca e risorse russe? E, se così era, come ha potuto non rendersi conto che l’equazione stava impazzendo e che il contesto geopolitico su cui si basava Merkel era divenuto obsoleto?
Prima di arrivare a queste cruciali domande, sul taccuino dell’analista si fissano alcune impressioni. La prima: Merkel è stata una politica di non comune preparazione, che compulsava in ogni dettaglio i dossier che le preparavano i suoi collaboratori. La seconda: per anni la cancelliera ha rappresentato la risposta alla sarcastica battuta di Henry Kissinger «L’Europa? Qual è il suo numero di telefono?». Merkel ha cioè dato corpo a una figura di leader politico non solo tedesco, ma anche europeo, dedicando grande attenzione alla pratica del potere. L’esempio più noto è quello del tedesco Martin Selmayr, a lungo deus ex machina degli ingranaggi bruxellesi e oggi ambasciatore dell’Unione europea presso il Vaticano.
Questo esempio non è certo il solo: Berlino dispone oggi di un’infrastruttura di potere formidabile a Bruxelles, e lo deve in buona parte proprio a Merkel. È in questo contesto che va collocato il «parricidio» di Merkel nei confronti di Helmut Kohl, che aprì il lunghissimo ciclo politico di Merkel. Della quale è ben nota la spietatezza con cui rimuoveva avversari, specie all’interno del suo stesso partito (citofonare Friedrich Merz per referenze). Ma il caso di Kohl, che di Merkel fu padrino putativo e mentore politico, fa storia a sé rispetto al «killer instinct» di Merkel. Di Kohl, Merkel non rimosse infatti solo la presenza politica, cosa di cui Kohl non si diede pace fino alla fine. Ne seppellì anche gli ardori patriottici. Kohl, protagonista della riunificazione delle due Germanie, era convinto che i lunghi decenni di separazione non potessero che trovare un premio nella ritrovata unità e nell’identità nazionale tedesca. Merkel la pensava diversamente. Con ogni probabilità, l’idea di fare i conti con l’identità nazionale tedesca le metteva i brividi.
Fin dall’inizio per Merkel il sovra-Stato europeo rappresentava una nuova architettura che imbrigliava la Germania riunificata pur amplificandone il potere. Anche il modello centrista perseguito tenacemente da Merkel muoveva da premesse simili. La Cdu, partito conservatore-centrista, sotto la guida di Merkel è si spostata sempre più verso il centro. L’accentramento si è tradotto a loro volta nell’impossibilità di imbastire coalizioni di centrodestra e nella necessità di fare a lungo coppia con i socialdemocratici tedeschi. Ma nelle praterie che si sono così aperte sulle «ali» oggi scorrazzano, con grande gioia di Mosca, i massimalisti di Sahra Wagenknecht (BSW) e l’estrema destra di Alternative für Deutschland.