Economia
September 09 2019
Un’Europa non più matrigna, lo spread che si volta dall’altra parte, le banche finalmente rilassate e pronte ad aprire i cordoni del credito. Potrebbe essere un altro «anno bellissimo», per dirla alla «Giuseppi» Conte, quello che ci aspetta sotto la maggioranza M5s-Pd-Leu, con un autunno dolce come un Indian summer. Potrebbe essere, e davvero tutti gli italiani se lo augurano, che il problema finora fossero stati Matteo Salvini, Danilo Toninelli e il deludente contributo di Lino Banfi all’Unesco. Eppure basta mettere in fila i dossier lasciati aperti, insieme alle inesorabili scadenze di finanza pubblica, per capire che sarà «un anno bellissimo» certo, ma come scalare un 8 mila: se arrivi in vetta, il panorama varrà la pena, però le passeggiate sono un’altra cosa.
Il primo governo giallo-rosso della storia repubblicana, sulla carta, nasce nel segno del rispetto dei lavoratori e della tutela delle piante organiche. Dopo la drammatica esperienza del Giuseppi I, in cui la debordante presenza dell’alleato leghista, subdolamente vicino al grande capitale e al far west degli imprenditori allergici al fisco, ha impedito di alleviare le sofferenze dei salariati, ecco arrivato il momento di risolvere una serie di problemi e di crisi aziendali sulle quali Luigi Di Maio, da ministro dello Sviluppo economico si era comunque applicato. I rider sono stato il primo fronte aperto, ma a distanza di 14 mesi si è ancora in attesa delle norme per le tutele previdenziali e contributive dei ciclofattorini. Erano contenute nel decreto crescita, insieme ad altre misure stroncate a pochi metri dall’arrivo dalla crisi di governo aperta dal Carroccio.
Ma se al decreto crescita mancano ben 75 decreti attuativi, roba da intasare il Mef e i principali ministeri economici fino a Natale, c’è il decreto imprese che è stato solo annunciato e mai approvato. E così non sono state disinnescate autentiche bombe a orologeria come l’Ilva di Taranto, dove gli indiani (ma con sede in Lussemburgo) di ArcelorMittal pretendono piena immunità penale, civile e amministrativa. E c’è anche da capirli, visto lo stato della giustizia italiana. Ma se non passa il decreto salva-fedine penali, sono a rischio i loro investimenti in Italia e oltre 10 mila posti di lavoro.
Al Mise, del resto, sono aperti ben 160 tavoli di crisi aziendale. A Napoli, sono fortemente a rischio 420 lavoratori della Whirpool, che aspettavano da mesi sgravi contributivi per i loro contratti di solidarietà (erano solo 17 milioni di euro in due anni). In Sicilia, a Termini Imerese, Fca se n’è andata all’inglese (giustamente, visto che ora ha domicilio fiscale a Londra e sede legale ad Amsterdam), mollando fabbrica e operai a una certa Blutec che però poi non ce l’ha fatta ed ecco altri mille operai sul groppone della finanza pubblica. La loro cassa integrazione va prorogata, altrimenti apriti cielo. In Sardegna, quasi mille lavoratori siderugici della ex Alcoa aspettavano anche loro il rinnovo della cassa integrazione che scadeva a fine agosto e non sanno se fare il tifo per il ritorno di Di Maio o di qualcuno meno distratto dalle dirette Facebook.
A parole, il governo italiano privatizza da anni. Privatizza su larga scala più o meno il 15 ottobre di ogni anno, quando deve mandare la manovra finanziaria a Bruxelles e millanta dismissioni per 10, 12, 15, anche 18 miliardi di euro, come ha fatto l’ultima volta Giovanni Tria, dopo gli exploit di Pier Carlo Padoan, che poi invece ha solo nazionalizzato la banca della città dove è stato eletto: Siena. Già, entro il 2019 avremmo dovuto vendere quote di aziende pubbliche per 18 miliardi, ma poi, si sa, i mercati, la crisi, lo spread, le banche avare...
Alla voce dismissioni, il governo precedente aveva messo nero su bianco ben 18 miliardi di euro di incassi per quest’anno. Forse è anche un bene che non si sia fatto nulla, visto che giravano ipotesi di pastrocchi senza senso, come un nuovo veicolo societario che detenesse beni pubblici e si indebitasse vendendo obbligazioni. Oppure espropri più o meno scoperti in danno della Cassa depositi e prestiti, che gestisce il risparmio postale delle formichine italiane e che tutti i governi sognano di usare come un bancomat per imprese più o meno clientelari.
Alla fine, invece, cresce lo Stato padrone, come dimostra innanzitutto la citata operazione Monte Paschi, nella quale il Tesoro ha immesso 6,9 miliardi di euro per arrivare al 68 per cento del capitale. Adesso, quel pacchetto di controllo va ceduto entro fine anno, se non si vuole una procedura d’infrazione Ue, ma ai valori di Borsa attuali vale soltanto un miliardo e venti milioni. Praticamente, per salvare la ex banca «dei compagni», ci siamo fumati mezza finanziaria.
Molto istruttivo anche il dossier Alitalia, un caso di privatizzazione che andrebbe inserito nei manuali di economia alla voce: «Quando lo Stato fa ridere, ma i privati anche di più». È sempre sgradevole usare i soldi dei contribuenti per salvare, di fatto, l’investimento sbagliato di un privato, o il credito concesso malamente dalle banche. Ma con la scusa dei posti di lavoro, o del presunto «prestigio della nazione», si può fare tutto. E allora 14 mesi non sono bastati a Di Maio e a Tria per dare un futuro certo all’ex compagnia di bandiera, della quale al Nord non importa a nessuno ormai da anni, ma che su Roma significa 21 mila posti di lavoro, indotto compreso.
Il 15 settembre scade il termine ultimo per l’offerta finale da parte della cordata pubblico-privata della quale si chiacchiera da mesi, formata da Ferrovie dello Stato (concorrente di Alitalia sulla Milano-Roma), Delta airlines (che giustamente pretende le rotte internazionali, soprattutto quelle americane), Atlantia (che controlla gli aeroporti di Roma e vorrà tutelare i ricchi contratti e l’impunità di fatto dopo il crollo del ponte Morandi di Genova) e il Mef. Anche qui Bruxelles aspetta con il fucile spianato, perché quei 900 milioni di euro di prestito ponte vanno restituiti al più presto. Ma come non si sa, visto che Alitalia continua allegramente a bruciare mezzo milione di euro al giorno.
Ma per fortuna non c’è più Salvini. I primi segnali sembrano inequivocabili: complice il rallentamento dell’economia tedesca e il prolungamento della politica espansiva della Bce, da Bruxelles adesso ci guardano con meno severità. Nella prossima manovra, che va presentata a metà ottobre, bisogna disinnescare 21,9 miliardi di aumenti Iva per il 2020. Servono un calo dello spread fino a 100 punti e un bel po’ di spesa in deficit, e già si sogna di essere autorizzati a fare non solo un 2,4 per cento di deficit sul Pil (contro l’1,9 per cento promesso), ma di salire anche al 3 per cento. Insomma, il nuovo governo dovrebbe chiedere almeno 12-15 miliardi di nuova flessibilità alla Commissione. E c’è la possibilità che, avendo tenuto Salvini fuori dalla porta e riposto qualunque sogno di Italexit, ce la concedano anche.
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