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November 18 2019
Quando vado in giro, ormai la gente non mi domanda altro: «Secondo te quanto dura questo Governo?». Saltando i convenevoli e andando dritto al sodo, vogliono sapere se i ministri riusciranno a mangiare il panettone e se, nel prossimo uovo di Pasqua, si ritroveranno la sorpresa di un nuovo Parlamento e di una maggioranza diversa da quella giallorossa. A tutti rispondo non solo che per immaginare il futuro ci vorrebbe una palla di vetro, di cui non essendo il mago Otelma ovviamente non dispongo, ma che per stabilire quanto accadrà bisognerebbe poter misurare l’istinto di sopravvivenza degli onorevoli. I quali, come i capponi a Natale, sono restii a finire in pentola, o per lo meno a concludere la carriera fuori da Camera e Senato e dunque, per scongiurare il destino che li attende, sono pronti a escogitare qualsiasi trucco, anche il più incredibile, pur di rimanere attaccati alla poltrona.
Insomma, nonostante quel che si dice, e quel che qualcuno si augura, le elezioni non mi paiono dietro l’angolo, nel senso che non le darei per scontate come invece mi sembra che le diano molti osservatori. I quali ritengono che il logoramento della maggioranza sia tale da aspettarsi una veloce rottura dell’esile filo che tiene insieme 5 Stelle, Leu, Italia viva e Pd. Per quanto litighino e per quanto si detestino, gli allegri componenti dell’armata Brancaleone che ha occupato Palazzo Chigi non hanno intenzione di disarmare in fretta. Anzi, nel loro futuro intravedono ancora due-tre anni di inciuci e spartizioni.
Come ho avuto modo di spiegare, tra le scadenze più attese non c’è il varo definitivo della manovra economico-finanziaria che, per quanto sia stata usata come foglia di fico per giustificare la nascita del governo, non è al centro dei pensieri degli onorevoli. In cima alle priorità, oltre alla conservazione dell’indennità di mandato, semmai ci sono le nomine, ovvero gli incarichi da distribuire a pioggia nelle aziende pubbliche. Per certi parlamentari, designare un amministratore delegato o decidere la sorte di un’impresa è molto più importante che stabilire se sia giusto varare la plastic tax o raddoppiare l’imposta catastale o quella sulle flotte aziendali. Le nomine non sono diamanti, cioè per sempre, ma avere per un triennio un amico in un’azienda pubblica è un po’ come avere un tesoro. Perciò a leader e leaderini la questione sta parecchio a cuore, perché dalla designazione di un manager o di un altro dipendono tante cose, anche gli interessi delle lobby.
E di incarichi pubblici nel prossimo anno ce ne sono da distribuire parecchi, in quanto molti manager sono in scadenza. Dunque, prima che la tavola sia apparecchiata per la spartizione, difficile prevedere che qualcuno si alzi rinunciando al pranzo. Più facile immaginare che il mangia mangia si concluda quando non sarà avanzato nulla. A convincermi che le elezioni saranno rinviate a data da destinarsi e la maggioranza si adatterà a una convivenza forzata e armata, è anche il fatto che nel 2022 il Parlamento sarà chiamato a designare il successore di Sergio Mattarella e figuratevi se gli attuali inquilini del Parlamento si faranno sfuggire l’occasione di nominare il nuovo capo dello Stato, regalando un’occasione al centrodestra.
Insomma ci sono molti buoni motivi che concorrono a convincermi che difficilmente la parola sarà restituita agli elettori prima della naturale scadenza della legislatura. Ciò detto, e sgombrato il campo dalle aspettative di chi si augura un rapido cambio di governo, bisogna però tenere in considerazione almeno un paio di fattori che potrebbero smentire tutto ciò che ho appena scritto.
Il primo si chiama Emilia Romagna, regione in cui a fine gennaio si vota. L’Emilia è da sempre rossa e anche se in passato ha perso qualche città, prima fra tutte Bologna, nelle campagne i comunisti sono sempre stati maggioranza. Perciò, se la roccaforte cadesse, per i compagni sarebbe una scoppola capace di tramortirli, con effetti che nessuno è in grado di prevedere. Quelli che fingono di saperla lunga dicono: se perdesse le elezioni regionali, perché il Pd dovrebbe candidarsi a perdere anche quelle politiche, provocando una crisi? Risposta facile: perché per quanto Nicola Zingaretti possa far finta di niente, l’Emilia sarebbe la quarta regione ceduta al centrodestra da quando lui è segretario, dopo il Piemonte, la Basilicata e l’Umbria. Massimo D’Alema e Walter Veltroni andarono a casa per molto meno. Nel Pd e in Italia viva ci sarebbe chi affilerebbe i lunghi coltelli e il governatore del Lazio avrebbe poche possibilità di salvare il collo. Difficile che possa sfangarla pure Luigi Di Maio, che di sconfitte ormai ha una collezione personale. E poi, a prescindere da tutti i ragionamenti, con una maggioranza sull’orlo di una crisi di nervi, l’incidente è sempre in agguato. Romano Prodi, detto il Mortadella, fu affettato all’improvviso, quasi per caso, da un’indagine che toccò Clemente Mastella e il governo finì in un amen. Nel caso di Giuseppe Conte, a pronunciare la fatidica frase «la messa è finita, andate in pace» potrebbero essere in tanti. Magari per caso più che per calcolo.
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