Grecia e il no agli aiuti. E ora?

Questa volta la quadratura del cerchio non è saltata fuori. Per Atene lo spauracchio fallimento è lì dietro l’angolo. La Grecia adesso dovrà aspettare il 26 novembre per conoscere il suo destino. A Bruxelles si ritroveranno i ministri delle Finanze europei: cercheranno di convincere la Germania ad aiutare ancora Atene. Fra l'Eurozona disposta a spostare in avanti di due anni i paletti di rientro dal debito, ora fissati al 120% da raggiungere nel 2020, e il Fmi che non intende cedere, Berlino si è messa al pallottoliere: vuole quantificare le misure per aiutare il grande malato a ridurre il debito. I segnali che arrivano sono distensivi:"Ci sono chance per trovare un accordo" ha dichiarato Angela Merkel. E il mondo aspetta.

La prossima tranche di aiuti da 44 miliardi di euro che salverebbero Atene dal baratro significano un ulteriore nuovo sforzo per i Paesi della ue. Ma c'è poco da fare. Per gli economisti non esistono strade alternative.

Sul tavolo di una seduta del gruppo parlamentare Cdu-Csu la cancelliera tedesca, Angela Merkel, avrebbe calato due jolly: aumentare di 10 miliardi di euro le disponibilità del fondo salvastati Efsf e, in alternativa o in combinazione con questa misura, ridurre radicalmente i tassi che attualmente paga Atene per i crediti.

Faranno la differenza? Secondo Vincenzo Longo, strategist di Ig Markets, sono misure potenzialmente utili in quanto “non si tratta di un mero prolungamento delle scadenze ma di una riduzione dello stock di debito in essere finanziato dall’Efsf che prevederebbe tassi più vantaggiosi”. Ma nell’attesa di indicazioni precise avverte: “La sensazione è che la sabbia stia finendo di scendere nella clessidra e non possa essere più capovolta. Probabile un mix di misure tra quelle attualmente al vaglio e suggerite proprio dalla Merkel.

Peccato che qualcuno altro potrebbe anche obiettare che sulle sponde dell’Egeo tutto questo potrebbe fare ormai poca differenza. È il quinto anno consecutivo che il Paese è in balia della recessione, lacerato da una disoccupazione superiore al 20% e da un debito pubblico al 170% del Pil, con 30mila persone che ogni mese rinunciano all’elettricità mentre negli ospedali i pazienti in reparti di terapia intensiva vivono nell’incubo di vedersi dimettere perché, a causa dei recenti tagli dei fondi, oltre il 20% di queste unità sono state chiuse e altre lo saranno nei prossimi mesi.

Una situazione drammatica di fronte alla quale stanno diventando sempre più numerosi gli economisti che, fuori dai denti, ammettono che sarebbe plausibile assumere soluzione estreme. Chiamano in causa la svalutazione o la cancellazione del debito pubblico, ricordando un passato abbastanza recente. Nel 1953 fu la virtuosa Germania a tagliare il proprio debito. “Era un caso particolare dopo la guerra”, ha detto qualche giorno il direttore del Fondo europeo di stabilità finanziaria (Efsf), Klaus Regling. Eppure oggi come allora, conclude Fabrice Montagne, economista di Barclays, senza il coinvolgimento del settore pubblico, ossia le banche e i creditori privati, sarà difficile superare lo stallo. Come dire: senza accettare l’evidenza, questa volta sarà tutta l’Europa a uscirne sconfitta.

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