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May 02 2018
I raid cosiddetti “misteriosi” contro basi militari iraniane in Siria delle ultime settimane, raccontano una verità sempre più evidente sulla grande guerra del Medio Oriente: tra Israele e Iran è ormai scontro aperto.
Figlio di un rapporto, quello tra lo stato ebraico e il paese degli Ayatollah, dove le parole al vetriolo (vedi la conferenza stampa dello scorso 30 aprile del premier Netanyahu, che ha accusato Teheran di continuare a produrre in segreto il nucleare) sempre più spesso si alternano ai fatti (vedi la sequela di operazioni mirate e non dichiarate condotte da Gerusalemme contro postazioni militari ora delle Guardie della Rivoluzione ora degli Hezbollah libanesi, alleati di ferro di Teheran).
Le cassandre della geopolitica già preconizzano nei prossimi mesi una guerra diretta tra Israele e Iran. Che per il momento si svolge in “campo neutro”, ovvero ancora la Siria. Ma la verità è che nessuna delle due forze oggi si può permettere di andare oltre operazioni militari e d’intelligence circoscritte e limitate.
In particolare, Teheran si trova in una posizione che definire scomoda è eufemistico: alle prese con la degenerazione della guerra civile scaturita nel 2011, l’Iran ha scelto scientemente e per fini espansionistici di voler tenere in piedi un regime - quello di Damasco - che, tuttavia, dopo sette anni di conflitto, mostra tutti i limiti del caso.
Chi s’illude di ricostruire la Siria asseconda infatti l’idea di perpetuare “un errore storico”, come ormai è stato bollato lo Stato siriano fuoriuscito dagli accordi di Sykes-Picot d’inizio Novecento, che hanno disegnato buona parte della cartina geografica del Medio Oriente per come oggi lo conosciamo. Senza considerare quanto costi in termini di vite e di economia lo sforzo bellico degli Ayatollah.
Se dunque è impossibile per il regime iraniano ricomporre l’unità del paese, pur con l’aiuto dei miliziani di Hezbollah e soprattutto della Russia, altrettanto difficile è convincere Israele a desistere dal suo principale obiettivo a medio termine: impedire il rinnovo dell’accordo sul nucleare da parte degli Stati Uniti, che il 12 maggio sono chiamati a decidere se restare o meno all’interno degli storici patti conseguiti dal presidente Barack Obama nel giugno 2015 relativamente all’atomica.
Secondo le notizie rivelate dal premier Netanyahu - il cui discorso non a caso è stato tenuto in inglese - i servizi segreti di Israele sarebbero riusciti a ottenere “55 mila file relativi di progetti nucleari che includono fotografie che li incriminano, progetti e altri documenti”. Una scoperta definita “uno dei maggiori successi d’intelligence che Israele abbia mai conseguito”.
L’Iran, secondo il governo israeliano, intenderebbe infatti dotarsi di cinque ordigni nucleari analoghi a quelli di Hiroshima, mentre “i suoi missili possono già colpire a migliaia di chilometri”.
Per questo, il progetto va fermato con ogni mezzo. E il primo, non serve dirlo, passa proprio per screditare il paese agli occhi della comunità internazionale. Il secondo, per il boicottaggio economico attraverso nuove sanzioni. Il terzo, extrema ratio, passa invece per le sempre più numerose azioni militari unilaterali. Come, appunto, gli strike mirati in territorio siriano contro basi e depositi di armi iraniani, che si susseguono da anni senza sosta.
È il cosiddetto principio della deterrenza, di cui Gerusalemme ha fatto una ragione di stato: il rischio percepito da Gerusalemme è, infatti, quello della “saturazione” ovvero la consapevolezza che troppe armi ed eserciti ammassati al confine, siano impossibili da fermare. Per questo, l’attacco viene sempre considerato dal governo israeliano come la migliore arma di difesa.
Vere o meno che siano le prove addotte dal premier israeliano, comunque, le mosse di ambo le parti stanno aiutando gli altri paesi a coalizzarsi, e a scegliere con nettezza da quale parte stare. Così, in Siria oggi abbiamo una situazione che vede definitivamente schierati dalla stessa parte: Israele, Stati Uniti e Arabia Saudita (con Francia e Regno Unito nel ruolo di comprimari); mentre dall’altra vi sono Iran, Damasco e Federazione Russa. Dov’è la variabile? Nella Turchia, nei curdi, negli ultimi jihadisti (siriani e non) che imperversano tra il deserto e la provincia di Idlib. Ma, soprattutto, nell’ondivaga percezione che la comunità internazionale ha di tutto questo.
Un giorno, quando questa guerra sarà finita, sui libri di storia forse non si ricorderà più quale ragione ha portato a un simile disastro né chi ha scatenato per primo l’inferno. Ma nella nuova mappa geografica del Medio Oriente sia Israele sia l’Iran, dubitando l’uno dell’altro, continueranno a esistere e resistersi. Cosa che, invece, non si può dire con certezza della Siria.