Dal Mondo
January 27 2023
Oggi ricorre il Giorno della Memoria. Eppure, di fronte a una data così densa di significati che non richiede ulteriori precisazioni, di che cosa si discute in Italia? Dell’opportunità che un presidente (peraltro, a sua volta di origini ebraiche) il cui territorio è stato invaso da truppe straniere, invii o meno il proprio messaggio coram populo sulla televisione di Stato.
«Se tolleriamo tutto questo, i nostri figli saranno i prossimi» è il mantra di Volodymyr Zelensky, la Cassandra che da oltre un anno mette in guardia sul futuro che aspetta l’Europa se non si opporrà all’orrore della guerra. Lo gridavano anche nel ghetto di Varsavia. Lo sosteneva Winston Churchill da Radio Londra. Ne erano convinti i soldati sbarcati sulle spiagge di Omaha Beach. Lo pensavano le donne e gli uomini impegnati nella resistenza di Stalingrado. Lo hanno cantato nelle canzoni. Ed è stampigliato nelle pagine di storia, sin dalle classi elementari.
Ma siamo diventati improvvisamente così sordi – o comunque storditi – da una cacofonia di opinioni qualunquiste e superficiali, che davvero pensiamo sia importante impuntarsi sulla censura del presidente ucraino. Mentre dunque l’Italia di Sanremo si divide su questo «cruciale» aspetto politico, Zelensky sì Zelensky no, la lezione che ci arriva dal Novecento giace inascoltata. Eppure, è di per sé piuttosto chiara, e dovrebbe invece portarci semmai a una più razionale analisi dei fatti. E i fatti vogliono che l’impegno italiano ed europeo a sostegno dell’Ucraina sia essenziale affinché s’imponga un principio banale per il presente e il futuro: no alle guerre di conquista, no all’imperialismo armato.
Se proviamo ad analizzare con distacco cosa realmente sta accadendo in Ucraina, scopriamo ad esempio che la parola «escalation» tanto in voga in questi mesi, è un mero paravento dietro il quale si trincerano coloro i quali non accettano che i nodi irrisolti della caduta del comunismo e dell’Unione Sovietica siano ormai venuti al pettine.
La malattia della dittatura è stata curata così blandamente a quelle latitudini, che oggi si è resa necessaria una cura da cavallo per non esserne contagiati anche in Europa. E la sola cura possibile è il rifiuto di scendere a patti con il Cremlino. Altrimenti, è certo che domani la malattia si ripresenterà nuovamente, in forme sempre più gravi.
Ciò che i cosiddetti «filorussi» non riescono ad ammettere è che governi come quello italiano, tedesco, francese e tutti coloro i quali contribuiscono a inviare armi in sostegno a Kiev, non si oppongono alla Russia in quanto tale, ma soltanto al governo di Vladimir Putin. Il nemico non è Mosca ma la nomenklatura attualmente al potere, che vuole fare tabula rasa di un Paese che considera sua proprietà.
Perciò il solo fatto di scandalizzarsi per l’invio di carri armati a Est, quando sono già state inviate tonnellate di armi non meno letali, è una captatio benevolentiae: un espediente retorico che non trova giustificazione se non nel pregiudizio. Forse non si è ancora ben compreso che come ieri venivano inviate munizioni e oggi cingolati, domani arriveranno anche gli aerei (sì, accadrà presto). E tutto questo perché l’Occidente politico per una volta tanto è stato fermo sulle proprie posizioni, unito nell’affermare che non avrebbe tollerato un’aggressione militare a un Paese europeo e coerente nel comportarsi di conseguenza.
Se per fermare la guerra di Putin serviranno navi, pertanto, Usa ed Ue invieranno navi. Se serviranno aerei, invieranno aerei. Se servirà altro, invieranno questo altro. Perché, molto semplicemente, la posizione delle cancellerie euro-atlantiche è che Vladimir Putin non deve vincere questa guerra. Una volta compreso ciò, il resto è noia.
Il Cremlino da far suo ha probabilmente sbagliato i calcoli: prima credendo che Kiev fosse alla sua portata; quindi, puntando tutto sul legame con la Germania e sul ricatto degli idrocarburi (che ci avrebbe dovuti tenere al freddo, convincendoci a desistere); infine, sulla certezza che l’incoerenza dell’Occidente avrebbe sfaldato la coalizione. Il suo divide et impera, insomma, si è rivelata una soluzione approssimativa e azzardata, specie considerato che il potere della Russia è sovrastimato anzitutto dalla Russia stessa.
Un po’ come credere davvero che poche decine di hacker russi possano influenzare gli elettori americani e determinare l’esito delle presidenziali, più della busta paga e della copertura sanitaria del cittadino medio americano.
Meglio avrebbe fatto Putin ad ascoltare la sua intelligence militare, che invece era ben conscia dell’impreparazione delle truppe, delle difficoltà insormontabili della logistica, dell’arretratezza tecnologica delle sue forze armate.
Purtroppo, la sua politica di potenza lo ha obnubilato, portandolo a puntare sulle soldataglie mercenarie raccolte nelle carceri, sugli uomini prezzolati che combattono per soldi, umiliando le forze armate e peggiorando sensibilmente lo status di superpotenza che Mosca si era così faticosamente guadagnata. A poco sono valsi gli avvertimenti dei vari Sergey Lavrov, titolare degli esteri e diplomatico di lungo corso; o di Sergey Naryshkin, capo dei servizi segreti esterni, umiliato in diretta tv. Così come gli appelli degli oligarchi, cui gli uomini più vicini a Putin hanno offerto più volte cianuro e pallottole, nella migliore delle ipotesi istigandoli al suicidio.
Ecco la situazione a un anno dalla guerra. Uno in cui gli eserciti della Nato e della Russia sono stati sempre più vicini a un confronto diretto, e che pare ormai l’esito inevitabile di quella cosiddetta «terza guerra mondiale» che i libri di storia ricorderanno a far data dal 24 febbraio 2022. Ed è inutile ribattere proditoriamente che in realtà «tutto è iniziato nel 2014»: sarebbe come dire che la Seconda guerra mondiale ha avuto inizio nel giugno del 1914.
E se anche così fosse, a maggior ragione avremmo dovuto far tesoro di quell’esperienza, per sapere che a un’aggressione – come quella che Hitler lanciò contro la Polonia nel settembre del 1939 e ancor prima annettendo Austria e Sudeti – non si può che rispondere arrendendosi o resistendo. L’Europa ha scelto anche stavolta di resistere. Così oggi, a osservare bene la situazione geopolitica, quello che è in gioco non è tanto il destino dell’Ucraina, quanto piuttosto quello della Russia.