Lifestyle
June 08 2013
di Jacopo Guerriero
È uno strano caso, quello di Hans Tuzzi. Dandy, bibliofilo, editore, autore di gialli di culto; lo pseudonimo, uscito dritto dalle pagine di Robert Musil, nasconde il milanese Adriano Bon, 61 anni, scrittore raffinato. Tempo è trascorso da quando le edizioni Sylvestre Bonnard pubblicavano le sue prime prove, apprezzate da un pubblico di nicchia. E ora che la Bollati Boringhieri dà alle stampe Un enigma del passato (154 pagine, 14,90 euro), storia di veleno e di memoria contrapposta, ci si accorge che il contesto è cambiato. Il commissario Norberto Melis, il protagonista seriale di Tuzzi, questa volta alle prese con un omicidio efferato nelle valli dell’Alto Verbano, è realtà solida del panorama editoriale. La schiera degli appassionati si è allargata, la qualità del lavoro dell’autore non scende.
Dunque lei è un caso editoriale...
Non so se il successo sia notevole, né tantomeno se io sia un caso. Posso dire che quando scrivo cerco di rispettare me stesso, prima ancora del lettore. E, legato come sono a un’epoca in cui oggetti e sentimenti erano concreti, non virtuali, ho l’ingenuità di credere che questo atteggiamento venga percepito, come si ama dire oggi, da una minoranza di scelti lettori. Auguro ai miei editori che Tuzzi abbia tanti lettori, ma a me va bene così: una competente minoranza.
«Un enigma del passato» si ambienta nei tardi anni Ottanta. È cominciato lì il disastro dell’Italia?
Negli anni Ottanta si è perso un treno importante. Ma il disastro, antropologico prima che politico, ha radici che avremmo meno splendide ex piccole capitali e un senso dello Stato assai più forte. E se davvero Venezia prima, i Savoia poi, fossero approdati alla Riforma? Un Paese non più monoreligioso. Sogni, purtroppo. Certo è che non avrei mai pensato di vivere anni più clericali, più conformisti, più slabbrati di questi: la volgarità arrembante, quella sì me l’aspettavo, l’ipocrisia babbea convinta e conculcata, quella no.
Quanto conta non avere una memoria condivisa? Nel suo ultimo romanzo ci sono due fratelli dalla parabola opposta e complementare, uno partigiano e uno repubblichino...
Gli americani, ingenui e pieni di contraddizioni, sanno coltivare il proprio passato, e più, il senso del proprio passato: "the Fate of a Nation". Noi, cinici e guitti, no. Non abbiamo fiducia nemmeno nella nostra lingua, storpiata e stuprata ogni giorno in ogni sede. Ma le pare che per revisione di spesa si debba parlare di spending review? E poi si traducono le "rules of engagement" in regole d’ingaggio... Penoso. E così, non sapendo valutare il nostro passato, svilendolo degradiamo il nostro presente. Eppure quante storie individuali potrebbero raccontare la nostra storia comune. E non mancano giornalisti, registi e scrittori che, con caparbia volontà, percorrono questi filoni: a essi va la mia gratitudine, per quel che vale.
Lei è stato docente ed editore, non le sarà sfuggita la morte dell’umanesimo. Allora perché si continua a scrivere? Forse perché serve una sorta di incoscienza organizzata contro il principio di realtà?
Mi salvo citando Gustave Flaubert: non leggete come i bambini, per divertirvi, né come gli avidi, per istruirvi. Leggete per vivere.
Lei è pure un inguaribile snob. Una volta confessò di scrivere gialli ma di non leggerli. Che cosa legge, oggi, Hans Tuzzi?
Un critico, e gliene sono grato, ha detto che sono meravigliosamente inattuale. Forse anche nelle letture. Prendo oggi alla lettera: di giorno sto rileggendo La grande officina di André Chastel, un saggio sull’arte italiana dal 1460 al 1500. La sera, prima di addormentarmi, la biografia di Max Perkins, l’editor di Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald.
Sembra anche un solitario. Che ne pensa dei suoi colleghi? La leggibilità sembra essere diventata una categoria critica e forse non è improprio parlare di dittatura dell’editing. O no?
Il mercato, o se preferisce il marketing, è di fatto una censura. E non certo la meno feroce. Tuttavia, singoli ostinati consentono ancora di vedere pubblicati libri che non rispondono a strategie preconfezionate. Del resto, se fosse davvero possibile confezionare successi, gli editori avrebbero conti in attivo. Sul giallo, a lungo e non senza qualche buon motivo disprezzato, oggi puntano tutti, con troppa fiducia. Quanto alla narrativa contemporanea, mi accorgo che autori assai diversi fra loro ma che apprezzo e stimo, Mauro Covacich, Paolo Nori, Filippo Tuena, hanno in comune l’essere nati nella ventina d’anni, 1945-1965, che fa una generazione: la mia, quella formatasi senza computer.
Si lasciano sempre da parte gli editori: sembra portino più di una responsabilità in tutto questo.
Non loderò i tempi andati, perché questi sono i nostri, e più difficili: impensabili, oggi, quel Mondadori, quel Rizzoli. Il trapasso è ben delineato da Jason Epstein nel Futuro di un mestiere. Forse nelle redazioni la qualità media è oggi più alta, proprio come accade per la fontina, che però non vanta gli antichi vertici di produzione. L’editoria somiglia sempre più al mercato dell’arte, dove i nomi si costruiscono e si impongono grazie a raffinate strategie dei galleristi. Già accade per gli pseudobestseller, e quanti lettori stupirebbero nell’apprendere che i loro beniamini vengono scritti ai tavoli delle redazioni. Si impone un gusto, ed è per i grandi numeri.
Quando arriverà il prossimo Melis? Se c’è già un prossimo Melis...
Da qui al 2014 con la Bollati Boringhieri usciranno due o tre ristampe di titoli già editi dalla Bonnard, ma posso garantire ai miei estimatori anche una novità. Grossa, gialla (sono due indizi) e, lo assicuro, davvero sorprendente.