Dal Mondo
December 13 2021
Non si arresta la stretta autoritaria su Hong Kong. Il magnate Jimmy Lai è stato condannato oggi a 13 mesi di reclusione per aver partecipato l’anno scorso alla veglia di commemorazione del massacro di Piazza Tienanmen. Condanne sono arrivate anche per altri sette attivisti. Secondo quanto riferito dal South China Morning Post, durante il processo i pubblici ministeri hanno sostenuto che l’iniziativa avrebbe costituito un pericolo sul fronte pandemico: sono d’altronde già due anni che le autorità locali vietano la tradizionale veglia, citando come motivazione il Covid-19. La stessa testata ha riferito inoltre che l’avvocato difensore di Lai ha letto durante il processo una lettera scritta a mano dal magnate. “Se commemorare coloro che sono morti a causa dell'ingiustizia è un crimine”, vi si legge, “allora condannatemi per questo crimine e lasciatemi subire la punizione di questo crimine, così posso condividere il peso e la gloria di quei giovani uomini e donne che hanno perso la vita il 4 giugno per proclamare la verità, la giustizia e il bene”.
Ricordiamo tra l’altro che Lai si trovi già da molto tempo dietro le sbarre. Tutto questo mentre – ad aprile scorso – era stato condannato con l’accusa di aver preso parte ad un raduno non autorizzato. Un’ulteriore condanna a 14 mesi per manifestazione non autorizzata era inoltre arrivata alla fine di maggio. In tale contesto, ricordiamo che Lai fosse il fondatore dell’Apple Daily: giornale particolarmente critico nei confronti del governo cinese, che è stato chiuso lo scorso giugno, poco dopo un pesante raid che le forze dell’ordine avevano condotto all’interno della sua redazione, arrestandone alcuni dirigenti.
La mannaia di Pechino, insomma, continua ad abbattersi sull’isola: una situazione notevolmente aggravatasi dopo che, nel giugno 2020, fu approvata la controversa legge sulla sicurezza nazionale, sostenuta dal governo cinese. Queste nuove condanne dovrebbero quindi portare la comunità internazionale a mantenere alta la propria attenzione su quanto sta accadendo ad Hong Kong: un’attenzione che, al contrario, negli ultimi mesi è sembrata (almeno parzialmente) scemare. Per quanto la Cina si ostini a sostenere che Hong Kong costituisca un problema di mera politica interna, va ricordato che nella Dichiarazione sino-britannica del 1984 fosse di fatto sancito il principio dell’ “un Paese, due sistemi”. Non solo: gli occhi sono adesso puntati sulle elezioni legislative che si terranno sull’isola il prossimo 19 dicembre: una tornata che avverrà dopo l’approvazione, lo scorso maggio, di una controversa legge elettorale di fatto imposta dal Congresso nazionale del popolo. Tutto questo, mentre la Cina sta già da giorni accusando gli Stati Uniti di interferenza.
Ma lo smantellamento della democrazia a Hong Kong è solo una (pur significativa) parte di un problema più generale. A questo dossier vanno infatti aggiunte la repressione degli uiguri nello Xinjiang e la pressione militare che Pechino sta esercitando su Taiwan. Senza poi ovviamente dimenticare la profonda opacità che ha caratterizzato la Repubblica popolare in materia di pandemia. Una serie di elementi che – anche alla luce del caso Peng Shuai – chiamano direttamente in causa l’opportunità di consentire lo svolgimento a Pechino delle prossime olimpiadi invernali. Non a caso, alcuni Paesi hanno scelto la strada del boicottaggio diplomatico. E’ per esempio in tal senso che si è recentemente espresso il presidente americano Joe Biden. Un annuncio, quello della Casa Bianca, che ha tuttavia irritato svariati parlamentari repubblicani e democratici, convinti del fatto che un boicottaggio diplomatico risulti una misura troppo blanda. L’Italia, in tutto questo, che cosa deciderà di fare?