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Hostile di Mathieu Turi, un amore fino alla fine del mondo - La recensione

Twelve Entertainment distribuzione, ufficio stampa Twelve Entertainment – K words Giuseppa Gatto D’Arrigo, Paola Vernacchio
“Hostile” di Mathieu Turi - Brittany Ashworth
Twelve Entertainment distribuzione, ufficio stampa Twelve Entertainment – K words Giuseppa Gatto D’Arrigo, Paola Vernacchio
“Hostile” di Mathieu Turi
Twelve Entertainment distribuzione, ufficio stampa Twelve Entertainment – K words Giuseppa Gatto D’Arrigo, Paola Vernacchio
“Hostile” di Mathieu Turi - Brittany Ashworth
Twelve Entertainment distribuzione, ufficio stampa Twelve Entertainment – K words Giuseppa Gatto D’Arrigo, Paola Vernacchio
“Hostile” di Mathieu Turi - Brittany Ashworth

Addio razza umana. Il saluto estremo arriva da Hostile (il sala dal 26 luglio, durata 83’) di Mathieu Turi, francese trentenne di Cannes qua all’esordio dopo aver fatto l’assistente in regia di Quentin Tarantino, Guy Ritchie e Luc Besson.

Film diverso, impasto eccentrico e a suo modo straordinario di indie-horror, fantascienza post-apocalittica stile Mad Max e love story. Un azzardo stilistico artefice d’una novità sufficientemente elettrica: all’interno di un cinema apprezzabile nella linea di “mutazione genetica” dei suoi contenuti.

E il terrorismo usò un virus per uccidere la razza umana

C’è una bella versione di House of the Rising Sun, all’inizio, cantata da Lauren O’Connell. Il lampo sonoro funziona da dio lungo la fettuccia polverosa e desertica  dove corre la jeep militarizzata di Juliette (Brittany Ashworth) tra carcasse di automobili e camion zeppe di cadaveri, corpi mutilati appesi agli alberi spogli, scheletri carbonizzati, aria densa di morte. Il mondo è finito, di nuovo addio razza umana. Spazzata via da un virus gentilmente dispensato dal terrorismo planetario.

Una spietata Juliette in lotta solitaria contro i mutanti

Resta un pugno di sopravvissuti spauriti e sgomenti incapaci perfino di procurarsi il cibo. Tutti salvo, appunto, Juliette faccia d’angelo, dalla stoffa della bucaniera ruvida, impavida, spietata e sporca, capace di scorrazzare nella catastrofe sfidando l’abominio dei mutanti cannibali che infestano la notte del mondo, frutto slabbrato della degenerazione globale. Ma quando il suo fuoristrada si ribalta nella sabbia incominciano i guai anche per lei, che s’è appena distratta alla guida guardando una foto gualcita che la ritrae con un uomo.

L’uomo amato “ritorna” nel momento più drammatico

Già, l’amore. Si capisce che è roba passata. L’uomo è/era  Jack (Grégory Fitoussi), gallerista bello, avvolgente e tenebroso che l’aveva strappata alla droga e alla perdizione con sentimenti tenaci prima di polverizzarsi, colpito, pure lui, dal virus. E Jack ritorna adesso, con Juliette a ricordare in flashback  la loro forte vicenda sentimentale nelle immagini che s’alternano sistematicamente a quelle del presente costruendo di fatto, nel montaggio, una storia parallela.

Due storie in una tra passato, presente e terrore

Da una parte la favola trascorsa, dall’altra la realtà più attuale e minacciosa perché, col calare delle ombre, Juliette si scopre assediata da una creatura carnivora che pare aspettarla all’incrocio narrativo coi suoi ricordi, sicché  in un astuto mélange di regìa il passato premonitore – quasi oracolistico -  e il presente più bruto e selvaggio camminano insieme, passione e terrore, quotidianità di un tempo e incubi contemporanei  nel rifugio della jeep cappottata che pare Fort Alamo in capo a un film (che dunque diventano due) dal fascino perverso e appiccicoso, in volo verso un finale scompigliante.

Dove la fotografia di Vincent Vieillard-Baron, in piena sintonia con i climi del racconto, gonfia la scena di tonalità tenebrose,  livide e  allarmanti accostandosi alla rantolante deformità di quella “creatura” che sinistramente richiama i soggetti  di Francis Bacon esposti nella galleria di Jack al primo incontro tra lui e Juliette.

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