Economia
June 14 2019
La vicenda Huawei può ritorcersi contro gli Stati Uniti. Il blocco imposto dal presidente Donald Trump alle aziende americane, che impedisce loro di fornire beni e servizi al colosso cinese delle telecomunicazioni, potrebbe rivelarsi un autogol, un boomerang per la superpotenza Nordamericana: «Non dare accesso al sistema operativo di Google a Huawei, significa accelerarne la migrazione su altre alternative sviluppate in casa. Quelle sì, se davvero ci sono rischi per la sicurezza in ballo, non saranno più controllabili. Il protezionismo sa essere potenzialmente molto controproducente. Chiunque ne viene colpito, non si lascia morire. Si ribella». A dirlo durante un colloquio con Panorama.it è Stephane Klecha, managing partner della società di consulenza finanziaria Klecha & Co. ed esperto di strategie industriali internazionali. Le sue sensazioni sembrano confermate dai fatti: la stessa Huawei non solo sta testando un software alternativo per smartphone più veloce di Android (si chiama HongMeng), ma lo avrebbe passato gratuitamente agli altri colossi cinesi del settore, da Oppo a Xiaomi, perché valutino se adottarlo. E starebbe creando le condizioni per un’alleanza strategica con la Russia, dando vita a un asse contrapposto a quello americano. Manovre da Guerra Fredda tecnologica.
Klecha, Huawei è un simbolo, un agnello sacrificale o un pericolo reale?
Diciamo che è la punta di un iceberg. Un caso che, per quanto impatti sulla nostra vita quotidiana, è minimo rispetto a un insieme più grande. Gli americani vogliono chiaramente rallentare lo sviluppo tecnologico cinese. Con ogni strategia possibile. Sanno che ci troviamo in una fase in cui teoricamente si può ancora fare. È come nel poker: è il momento dell’all’all-in. O adesso o mai più.
Queste manovre avranno reale efficacia?
Creando restrizioni significative sulla vendita di microchip ai produttori di Pechino, gli s’impedisce di proporre dispositivi di ultima generazione. Ciò commercialmente, almeno nel breve periodo, avrà un impatto significativo.
E nel medio?
La situazione tenderà ad assestarsi, ma non sarà priva di effetti. La Cina ne è consapevole, perciò spinge per risolvere in qualche modo la situazione. In questo momento ha una forza propulsiva molto potente, tutto ciò che si frappone come un ostacolo rappresenta un fastidio. Un freno a questa corsa.
Ma lei crede alla questione della sicurezza degli utenti messa a repentaglio da Huawei o è un pretesto?
Qui siamo nel terreno della strategia, non soltanto interna. Gli Stati Uniti devono convincere i loro alleati che, nonostante la loro fermezza, stanno facendo la scelta giusta. Che non ci sono alternative al blocco. Ma non possono convincerli facendo leva sulla dottrina economica: diversamente dalla Guerra Fredda con l’Unione Sovietica, ci sono alleati dal punto di vista militare che hanno relazioni commerciali con la Cina più solide rispetto agli Usa.
Per esempio?
Per esempio la Germania. Che intrattiene legami militari storici con Washington, ospita basi americane sul suo territorio, ma a livello economico se la intende meglio con Pechino. Dunque, per portarla dalla sua parte, Trump deve insistere su un valore intangibile e però sensibile come la sicurezza della popolazione. Specie perché, se si alzassero barriere sostanziali tra Cina e Germania, gli impatti sociali per Berlino sarebbero notevoli.
Transita tutto dalla tecnologia? È diventata così decisiva?
Le infrastrutture digitali che si stanno costruendo oggi rappresentano l’equivalente delle ferrovie del diciannovesimo secolo. Chi completerà le più efficienti, sarà la superpotenza dei prossimi vent’anni.
Il 5G è l’alta velocità, il Frecciarossa di questa ferrovia?
Lo è assieme all’intelligenza artificiale e al cloud. E sono ambiti in cui sarebbe illusorio immaginare una totale collaborazione internazionale. Ognuno spingerà per la sua indipendenza. Quella tecnologica trascina con sé quella militare ed economica.
Abbiamo parlato a lungo della Cina e degli Stati Uniti. L’Europa ha qualche possibilità d’inserirsi in questa diade?
Ne ha moltissime. Basta riprodurre quanto di buono già fatto con la politica agricola comune a livello alimentare. La strategia è rimanere uniti: preso come blocco economico unico, l’Unione europea è il più ricco che c’è al mondo. Deve avere il coraggio e la capacità d’imporsi per imporre uno standard internazionale. Il suo standard.
Però sembra esclusa dalla battaglia dei grandi, almeno a livello privato. Facebook, Google, Apple, Microsoft, Amazon sono colossi americani. E la Cina, da Alibaba ancora a Huawei, è al galoppo.
A rischio di sembrare miope o démodé, voglio insistere su quanto la via europea possa essere promettente. E capace di arginare, innanzitutto, lo strapotere di quei gruppi che ha appena nominato. Pensi alla norma che ha imposto ai giganti di costruire i loro data center sul territorio dell’Unione, affinché i nostri dati non fossero dispersi in giro per il mondo. O il Gdpr, che è stato copiato all’estero per la sua efficacia. Fino alle norme sulla firma digitale, dove l’Italia ha fatto scuola a livello comunitario e vanta i principali operatori nel settore.
Sta sottintendendo che più che dalla Cina, gli Stati Uniti dovrebbero guardarsi dal mansueto Vecchio Continente?
Non occorre leggere tutto nell’ottica di una sfida. Dico solo che noi europei dovremmo crederci un po’ di più. Non è demagogia, ma sensato ottimismo. Figlio però di una consapevolezza: lavoro tutti i giorni con imprenditori fantastici, con storie spettacolari da raccontare, che possono fare scuola ai soliti noti della Silicon Valley californiana.
Cosa ci manca ancora per giocarcela alla pari, anche a livello psicologico?
Un po’ di stabilità. E tonnellate di senso d’appartenenza.