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May 25 2018
Questo è un articolo-selezione che si arricchisce di altri cinque titoli. Michele Lauro li ha aggiunti a quelli che avevamo marchiato, con un po' di ironia arricchita però da scelte rigorose, come "i più belli di questo secolo" (peraltro incominciato da poco, quindi lo sviluppo e le aggiunte sono inevitabili). Ora dunque ne abbiamo 15. I primi che trovate qui sotto sono le nuove aggiunte, precedute da una piccola introduzione. Poi ci sono gli altri dieci, scelti nel 2016.
Il gioco prosegue in un mercato editoriale che sembra confermare l’evoluzione di una Editoria senza editori, come intitolò il suo saggio di inizio millennio André Schiffrin. Oltre 60.000 titoli l’anno pubblicati in Italia: l’omologazione dell’industria culturale coincidente con la rarefazione dei lettori e con un bisogno crescente di scelte, suggerimenti, selezioni, suggestioni. Per chi volesse allargare il raggio delle scintille provenienti dalla rete, segnalo tre opere critiche brillanti e illuminate che indagano il panorama della narrativa contemporanea spingendosi con coraggio fino alle soglie del presente: La terra della prosa di Andrea Cortellessa (2014), dedicato ai narratori italiani degli anni zero (1999-2014), Il romanzo italiano contemporaneo di Carlo Tirinanzi De Medici (2018), ricognizione critica dagli anni Settanta a oggi, e La letteratura circostante di Gianluigi Simonetti (2018), che abbraccia in un’unica, ampia visione narrativa e poesia dell’Italia contemporanea.
Storia, natura, filosofia, scienza e fantascienza partecipano all’architettura di un romanzo-saggio poderoso, ambizioso, disturbante, manifesto del decadentismo europeo di fine Novecento ed esegesi degli ultimi sessant'anni di storia italiana: il tempo di pace, appunto. Attraversa questo tempo un antieroe dai tratti vagamente sveviani, il settantenne Ivo Brandani, "vecchio maschio silente" che in un futuro prossimo si trova imprigionato per caso nell'aeroporto egiziano di Sharm el Sheik. La condizione di attesa nel non-luogo per antonomasia diventa lo spazio ideale per una riflessione: cosa nell’arco della mia esistenza ha resistito alla cancellazione del tempo?
Il tedium vitae di Ivo, ingegnere appassionato di aerodinamica dei velivoli da guerra, nevrotico, insicuro, ossessivo, abbandonato alla panacea chimica del Tavor, si manifesta nell’incontro-scontro fra l’armonia della matematica e il caos del mondo reale, e nello scacco affettivo dovuto alla generale ostilità del genere umano. I quadri esistenziali scorrono sullo sfondo di una società - l’Italia del dopoguerra - fondata prima sul miracolo economico e poi sulla finzione del cambiamento, con la massa dei piccolo-borghesi che avevano creduto nella rivoluzione soggiogati dal potere e dall'eros tanto quanto i potenti che aveva creduto di combattere. È una visione mostruosa, orwelliana e insieme iperrealistica: lo scannarsi di tutti contro tutti, schiavi del desiderio, assuefatti alle leggi del consumo. Ma nella notte di Roma, antica culla di civiltà preda del darwinismo sociale, abbagliano qua e là paesaggi e atmosfere purissime. Memoria di una bellezza e di una giovinezza estinte, rimembrate in pagine commosse.
Francesco Pecoraro
La vita in tempo di pace
Ponte alle Grazie
509 pp.
Raro caso in cui la buona letteratura diventa quasi subito un successo decretato anche da tanti giovani lettori, sfatando perfino il tipo di diffidenza con cui Giorgio Manganelli era solito accogliere l’imprevisto bestseller (“mi insospettisce… ci dev’essere qualcosa che non va”), è un romanzo molto fisico che poggia su un substrato spirituale profondo, nel solco delle grandi storie di formazione, virato sul doppio registro ambientale ed esistenziale.
Città e montagna – e il viaggio di andata e ritorno dall'una all'altra – sono come in tutte le storie di Cognetti la metafora dell'uomo che fatica a venire a patti col suo stare al mondo: le crepe nei legami familiari, i figli che si ritrovano sulle tracce dei padri proprio mentre pensavano di averla scampata, il desiderio di fuga dalla civiltà urbana che è poi fuga da sé stessi, da quell'io che non ci appartiene più. E come l’intenso diario che l’ha preceduto, Il ragazzo selvatico, Le otto montagne si pone agli antipodi della bucolica lucreziana.
È popolato da stambecchi e volpi, mucche cani pastori in antica simbiosi. Ci sono tronchi, scarpate, baite e ruscelli. Si prova la libertà di andare dove non c'è il sentiero e la commozione per le "cose fondate sulla propria forma e basta", come diceva in un verso Seamus Heaney. Ma è un attimo scivolare sul ghiaccio come dentro il disagio e la fatica, cedere alla spossatezza per l’interminabile inverno, per le relazioni inevitabilmente spezzate. Nel finale, lo scrittore apre lo sguardo a Oriente - le valli del Nepal - dove la montagna non è matrigna né madre né un’icona da conquistare o riconquistare, ma semplicemente la giostra del tempo in cui un’umanità senz’ansia di futuro ruota da sempre. Lo spunto perfetto per un nuovo racconto.
Paolo Cognetti
Le otto montagne
Einaudi
208 pp.
Romanzo breve sospinto a una breve notorietà dalla brezza del passaparola, narra una storia di eremitaggio e poi di convivenza forzata fra uomo e cane, in una valle aspra di montagna preclusa ai camminatori della domenica. È il cane che ha scelto l’uomo, Adelmo Farandola, un vecchio scontroso che si è ritirato in baita, insensibile alla dignità alla memoria e agli odori che fanno di un uomo un uomo.
Il cane invece ricorda tutto e annusa tutto. Con pazienza la coppia aspetta la fine dell'inverno raschiando il sudiciume dalle stoviglie e ingaggiando una sfida quotidiana contro i nemici dell'alta montagna: Freddo Fame Sonno. Dialoghi plausibilissimi tra bestie (tra uomo e bestia) violano il silenzio delle pietraie, scompigliando i contorni tra sogno e realtà in una zona franca appena sfiorata dai borborigmi del ghiaccio. Finché il rito del disgelo tinge la fiaba prima del bianco - una slavina arriva ad annunciare l’ubriacatura del rinnovamento - e poi del nero, e una misteriosa sagoma pian piano prende forma là dove sembrava esserci soltanto neve. Sospesa tra immanenza e metafisica, claustrofobia e vertigine, inquietudine e rassegnazione, questa fiaba ha generato nel 2017 un aguzzo spin off intitolato Le pietre, sempre ambientato in montagna e ugualmente chirurgico nello smascherare l’idealità compromessa della wilderness al tempo del global warming e del turismo di massa.
Claudio Morandini
Neve, cane, piede
Exòrma
138 pp.
Romanzo grafico dallo straordinario spessore umano e artistico, racconta i due viaggi nel Kurdistan siriano-iracheno del fumettista di Rebibbia (novembre 2014 e luglio 2015): facce, scarabocchi e parole dedicate a un popolo che ormai da tempo lotta per la liberazione dagli oppressori turchi e contro l'avanzata del Califfato. Un nonreportage, così l’ha chiamato l’autore, che sarebbe piaciuto a Tiziano Terzani, maestro di giornalismo sul campo la cui militanza contro le ingiustizie si è sposata con la ricerca di sé. Questo doppio registro, consueto nelle opere di Zerocalcare, in Kobane Calling raggiunge forse l’acme della poesia, rimanendo fedele a un linguaggio punk fatto di dialoghi ficcanti, immagini nette, similitudini abrasive (“sei mai stato a Mediaworld la mattina del 24 dicembre? ecco, la porta di Semelka, al confine con la Siria, è così. Moltiplicato per mille”) con cui l’autore introduce alla cultura sociale curda: un confederalismo democratico radicale basato sul diritto alla vita, sulla convivenza pacifica di etnie diverse, sull’uguaglianza di donne e uomini. L’attraversamento del Tigri per entrare in Rojava su una piccola barca a motore è fra i momenti più emozionanti.
Di là ci sono lo stesso fiume, gli stessi 50 gradi, lo stesso niente intorno. Eppure qualcosa è diverso. Saranno gli occhi di Ezel che brillano come quelli di una che sta tornando a casa, o forse “sarà il fatto che abbiamo attraversato mezzo mondo, preso aerei, pullman, barche… contro i pareri di quasi tutti quelli che conoscevamo…” In una tavola emblematica Kobane è ritratta dal tetto di un palazzo, con un cuore-cattedrale che pulsa in mezzo alle case scalcinate e alle macerie. Un cuore pieno di toppe, di cicatrici. Un cuore enorme. Come se in quella tragedia che non raccontano più nemmeno i telegiornali, come se nell’altrove più altrove vedessi improvvisamente anche te stesso, rannicchiato insieme agli altri esseri umani sulla faccia della terra.
Se c’è un messaggio celato in questo libro d’avventure anche interiori, un messaggio completamente antiretorico, è che per trasformare la nostra mentalità, cioè liberarsi dai clichè, dai condizionamenti, è meglio non accontentarsi di idealismi prefabbricati ma uscire dal recinto, andare a vedere di persona la vergogna dell’umanità in uno dei tanti musei a cielo aperto. Per tornare col dubbio che forse, di quello che è stato lasciato accadere, siamo un po’ tutti responsabili.
Zerocalcare
Kobane Calling
Bao Publishing
261 pp.
Ripubblicato nel 2018 con una postfazione dell’autrice che nel frattempo ha (meritatamente) vinto il Campiello 2017 con L’arminuta, è ambientato a L’Aquila, città sfasciata da quella "epilessia della terra insorta" che nel 2009 lasciò molti sopravvissuti - come la protagonista di questa storia - in balia di una vita provvisoria fatta di acronimi, nevrosi, rimpianti. Fra le crepe dei palazzi, un ragazzo riccioluto con la maglietta dei Nirvana si presenta a Caterina, chiamata dal destino a elaborare il lutto per la perdita della gemella e insieme a sostituirla nel ruolo più insostituibile: la madre di un adolescente. In un climax ad alta tensione emotiva, prende forma un malessere ben più antico della sciagura sismica, legato all’archetipico scontro tra femminilità e sorellanza. Un malessere arcaico che si accompagna alla vergogna, al senso di colpa per l’ingiustizia della sopravvivenza, come accade quando il disegno del caso appare così insensato e crudele.
Ispirato da una canzone popolare abruzzese, Bella mia riesce nel piccolo miracolo di tramutare l’angoscia in consapevolezza (“ho amato mia sorella come la parte di me che non sono riuscita a essere”) e la solitudine in una alleanza di esseri viventi (esseri umani, animali) dentro lo stesso paesaggio ferito. Anime rattrappite, traumatizzate, con la naturale propensione alla socievolezza ridotta a un lumicino sottile, da tenere acceso a ogni costo. Così la mitopoiesi del sisma si trasforma in un grido collettivo d’amore.
Donatella Di Pietrantonio
Bella mia
Einaudi
182 pp.
È un gioco con le pedine di Alta fedeltà e una pesca a setaccio nel cassetto dei ricordi: ciascuno di questi romanzi possiede quella misteriosa scintilla che è rimasta accesa nella memoria di un lettore, la mia.
Insieme a molti altri, testimoniando forse la salute della narrativa italiana contemporanea.
Prendetelo con l'ironia che Luciano Bianciardi profuse nelle sue lezioni per diventare un intellettuale, "dedicate in particolare ai giovani privi di talento". Pubblicate a puntate nel 1967 sulla rivista ABC, qualche anno fa sono state raccolte da Stampa alternativa in una deliziosa antologia dal titolo che mi sento di condividere: Non leggete i libri, fateveli raccontare.
Non è strano digitare oggi su Google il nome di questo libro e trovare ai primi posti i siti di riassunti scolastici? Il secondo romanzo di Niccolò Ammaniti ebbe un fulmineo passaggio al rango di classico: alle medie gli insegnanti lo consigliano fra i libri per l'estate, accanto ai vari Tom Sawyer e Barone rampante. E allora leggiamolo oppure rileggiamolo, da genitori, che a raccontarlo per immagini ci ha già pensato il bel film di Gabriele Salvatores a cui lo stesso autore ha contribuito per la sceneggiatura. L'estate infuocata di un borgo del sud Italia sorprende nel 1978 Michele, nove anni, con un segreto terribile che segnerà per sempre la sua infanzia. Al ritmo serrato di una pedalata col cuore in gola su un dirupo, l'autore esplora i meccanismi psicologici della pubertà e le dinamiche di gruppo, costantemente in bilico fra voglia di trasgressione e un disperato bisogno di normalità, fino alla drammatica scoperta che il mondo degli adulti non ha proprio le sembianze del paradiso.
Un romanzo di contrasti accecanti - le paure immaginarie dell'infanzia e la crudeltà reale del mondo, la forza dell'amicizia e la miseria del tradimento, la luce del giorno e il buio della notte, il dramma sociale e quello quotidiano - dove pensiero e azione si danno il cambio in un serratissimo continuum narrativo. Memorabile l'incipit con la sequenza cinematografica delle biciclette che sfrecciano fra i campi di grano, i ragazzi che il protagonista vede salire sulla cima la collina "lasciandosi dietro una coda di steli abbattuti". E il finale che rimanda al misterioso, inscindibile legame tra padre e figlio.
Niccolò Ammaniti
Io non ho paura
Einaudi
219 pp.
Certi paesi sono letteratura e come tali non interessano più a nessuno. Nessuno tranne Franco Arminio da Bisaccia, poeta e scrittore ribattezzatosi paesologo che con questo viaggio - incollocabile fra i generi letterari - introduce a una scienza nuova che forse è sempre esistita, sul confine tra geografia e metafisica. Una scienza difettosa, confessa il suo artefice, "che consente di perdere tempo senza sentirsi fuori dalla corsa". I paesi dell'Irpinia terremotata vi appaiono nelle sembianze di grumi di case in bilico, frammenti di un catalogo in estinzione. Nelle vie e nelle piazze, nei bar e nei circoli, nelle stanze diroccate dei borghi, nella compostezza introversa dei volti chi non si aspetta niente c'è la fotografia di quella stagione dell'esistenza in cui capiamo che non saremo più felici.
Ma nella prosa di Arminio i paesi sono come fiocchi di neve: improvvisamente prendono vita in un dettaglio qualunque (il mio preferito: l'uomo di Montaguto che di mattina fa il postino e di pomeriggio il barbiere a domicilio) finché l'infinito disfarsi delle cose e del mondo acquista una dimensione onirica, rarefatta, universale. È un romanzo capace di descrivere il sisma della modernità omologatrice con antenne di rara percezione. L'impegno civile, ibridato con la poesia, stempera nella luce e nel silenzio ogni equivoco di nostalgia, lasciando il lettore in balia di un vaga urgenza di partire.
Franco Arminio
Viaggio nel cratere
Sironi
185 pp.
Il lascito di Tiziano Terzani, morto poco dopo la sua pubblicazione, è uno dei libri a cui mi capita di tornare più spesso. Mi fa l'effetto, aprendolo a caso, di staccarmi da terra e per un attimo alzarmi in volo, improvvisamente percepire il mondo da una prospettiva. E ritrovare serenità. Gli ultimi sette anni di vita del giornalista-scrittore fiorentino, palpitanti di passioni, impegno civile e spirituale, ironia e amore, rappresentano la summa delle grandi domande sull'identità del genere umano e contengono i semi di una rivoluzione "dal piccolo al grande". "Un libro su quel che non va nelle nostre vite di uomini e donne moderni e su quel che è ancora splendido nell'universo fuori e dentro di noi": scritto nell'istante che precede il distacco. Malato di cancro, Terzani si mette in cammino alla ricerca di una cura per il corpo e per la mente. In una serie di memorabili incontri passa in rassegna il campionario sterminato di rimedi messi a punto nel tempo dalle culture d'Occidente e d'Oriente.
Poi la svolta, la presa di coscienza che "la vita e la morte sono due aspetti della stessa cosa". Terzani si prepara a lasciare il corpo vecchio indossando i panni di Anam il senzanome, in compagnia di un vecchio sadhu. Pare ancora di sentirla, la sua risata contagiosa. La morte? Eccomi qui, senza paura, senza rancore. Nel libro è contenuto anche il senso profondo dell'idea di non violenza alla base delle Lettere contro la guerra, pubblicate nel 2002 come risposta alla deriva occidentale dopo l'11 settembre: un'idea che nel pensiero orientale non significa soltanto "non uccidere", ma concepire gli altri come parte di un tutto di cui noi stessi facciamo parte. L'idea di quel cambiamento radicale delle coscienze che Terzani ha consegnato ai posteri insieme alla favola della propria vita.
Tiziano Terzani
Un altro giro di giostra
Longanesi
578 pp.
Quattro citazioni emblematiche introducono il romanzo d'inchiesta che ha squassato la moderna narrativa italiana, best seller internazionale, e ne anticipano l'ambizione etica, storico-politica, sociale e sociologica, economica e antropologica: Hannah Arendt, Macchiavelli, l'Al Pacino di Scarface e una intercettazione telefonica ("La gente sono vermi e devono rimanere vermi"). Al decadimento morale e umano della città biblica cui allude il titolo si aggiunge la spettacolarizzazione mediatica della rete criminale protagonista del romanzo, la camorra divenuta impero e sistema alternativo allo Stato nel quale si è insinuato come un cancro profittando del liberismo senza regole che governa l'economia di mercato.
Ma si può leggere Gomorra come un "semplice" romanzo d'avventure? Sì, anche se non ci sono dialoghi né una vera e propria trama, né personaggi-eroi né tutto sommato quasi mai suspence. Raccontato per sequenze, come un film a episodi (seguiranno appunto uno spettacolo teatrale, il crudo lungometraggio di Matteo Garrone e una popolare serie televisiva), Gomorra coinvolge e disturba, emoziona e inquieta, eccita e sconcerta - diversamente per esempio da un vecchio capolavoro di mafia come Il padrino di Mario Puzo (1969) - soprattutto per il profilo underground e per l'ossessiva tensione mimetica, quasi messianica della voce narrante nella terra del peccato. "Maledetti bastardi, sono ancora vivo!" Dopo dieci anni di minacce reali da parte della camorra, l'urlo liberatorio con cui si chiudeva il romanzo è l'espressione di un tragico cortocircuito in seno alla nostra società. Dal reale alla fiction, e ritorno.
Roberto Saviano
Gomorra
Mondadori
333 pp.
Nel paesaggio geroglifico di una Palermo scostumata e scrostata, fradicia di conformismo e ataviche assuefazioni, tre ragazzini undicenni si costruiscono un'iniziazione privata replicando nel microcosmo di provincia la deriva violenta dell'utopia nel terribile 1978, l'anno dell'assassinio di Moro da parte delle Br. La "costruzione dell'odio geometrico" procede verso la disfatta in una foresta di allegorie che usano l'immaginario collettivo di fine Settanta - televisione, fumetti, politica, perfino i mondiali di calcio con l'indio Passarella nei panni di eroe - come una trappola antinostalgica, un frullato al veleno.
Quello che cerco, scriverà poi Vasta in un passo del successivo romanzo Spaesamento, è la "metamorfosi della malinconia in una rabbia adulta che sia coraggiosa e corra il rischio del dolore": nel Tempo materiale il lettore la trova a patto che accetti la pugnalata senza filtro di un linguaggio abrasivo come una rasoiata punk. Un linguaggio divenuto polimorfo evocatore di sensi (con alcune vette espressive come la genia di neologismi, da alfamuto a pornonido) e metafora di quello "spaventoso esercizio di controllo sulle cose" che la fissazione prepuberale del protagonista Nimbo aveva confuso con l'ingresso nel mondo adulto. Avevo voglia di essere colpevole, dice nel punto chiave: colpevole di linguaggio.
Giorgio Vasta
Il tempo materiale
minimum fax
276 pp.
Le prime sette pagine di questo romanzo, il capitolo primo, sono la folgorante introduzione a una storia misteriosa e bella, bella "come lo sono a volte le cose cattive". Maria e Tzia Bonaria. Fill'e anima la prima, una figlia acquisita strappata alla miseria della famiglia naturale; madre acquisita la seconda, una madre nuova ma vecchia, portatrice di un sapere sciamanico che l'ha eletta ad accabadora dell'immaginario paese di Soreni: colei che aiuta nel trapasso. Sullo sfondo polveroso della Sardegna, isola-archetipo di simbologie, allusioni, patti taciti e trame millenarie, Murgia ricama "pensieri che non sopportano la luce piena", mescolando poesia e coraggio nel frantumare tabù sul senso della vita, dell'amore e della morte.
Un romanzo di sensazioni fisiche che odora di gueffus, pietra a secco e terra impastata col fango, anticipatore di questioni divenute oggi finalmente cruciali non solo per le coscienze ma anche per i legislatori: quelle legate alla supremazia (biologica o culturale?) dei codici che regolano i rapporti affettivi della nostra specie, come il diritto di amare ed essere amati senza essere discriminati.
Michela Murgia
Accabadora
Einaudi
165 pp.
È un romanzo che si confronta - in realtà sottraendosi al confronto, l'autore dichiara fin da subito il suo status di "turista" - con i reportage dall'India dei grandi narratori-viaggiatori novecenteschi: Pasolini, Moravia, Manganelli, Tabucchi. Rimane nel cuore come una promessa e come una spina: oh l'India che attrae e repelle, cassaforte di umanità e fabbrica di mitologie, sterco di vacca e braci di scheletri, tigre del progresso e avvoltoio corrotto, potenza nucleare e baluardo della mitezza universale. Franchini cede a questa antica mitopoiesi e parte per Delhi con due amici francesi appassionati di fotografia, affetti dalla classica ipercinesi da pillola esotica. Da Varanasi a Rishikesh lo sguardo del viaggiatore riluttante a poco a poco diventa memoria, meditazione, racconto.
Un libro il cui fascino proviene anche dal substrato teoretico insieme aperto e apodittico, con il controcanto affidato, come fosse un sitar, a brevi citazioni delle Upanishad e altre sacre scritture dell'induismo, "musica di fondo" a spezzare splendori e miserie del passaggio in India di un occidentale qualunque. Priva di una morale e di un senso definitivo, la narrazione segue un ritmo ipnotico e circolare, come inscritta nell'incessante scorrere della vita nella quale frullano altrettanto incessantemente i ricordi e i pensieri sulla vita e la morte, la paternità, l'eros, il destino, il tempo. Che è poi l'eredità forse più autentica e sincera dell'India, per chi l'ha saputa viaggiare: lasciar fluire il dolore cioè accettare la sfida di Siva, l'asceta erotico, "colui che fa piangere ma anche colui che piange". Assistere per un istante alla corazza dell'io che si sfalda, e stare a vedere cosa succede.
Antonio Franchini
Signore delle lacrime
Marsilio
128 pp.
Una carica d'innocenza, un intimo idealismo, un indomito sussulto vitale pervadono questo romanzo ispirato dalla figura storica di Piero Gobetti, icona antifascista della cui dimensione privata è in atto una riscoperta culminata nell'antologia Avanti nella lotta, amore mio!, curata dallo stesso Di Paolo. Nella Torino degli anni Venti le esistenze di Piero e Moraldo, due ragazzi dall'approccio alla vita diametralmente opposto, sembrano legate da un filo invisibile e misterioso. Ne seguiamo gli andirivieni da Torino a Parigi, mentre i fascisti al potere imbrigliano le coscienze dando il la alla grande allucinazione collettiva.
Storia e finzione si compenetrano con leggiadria a disegnare l'arco della giovinezza come l'età magica - dolorosamente magica - della vita, quella in cui il potere della creazione è puro come la luce del primo mattino ma anche quella che getta le basi per il male di vivere. Quand'è che, senza farci caso, diventiamo la maschera di noi stessi? si domanda Moraldo e intanto proietta l'immagine di sé in quella di Piero, l'uomo prigioniero della sua giovinezza, l'inscalfibile combattente che stipò "dentro ventiquattro anni ciò che altri non riescono a compiere in una vita lunga il triplo".
Paolo Di Paolo
Mandami tanta vita
Feltrinelli
158 pp.
È un romanzo generazionale pieno di malinconia euforica, simile al pensiero del mare nell'estate che deve ancora venire. Un giovane giornalista bavarese mette su famiglia in una cittadina di provincia poco prima dello schianto del Reich, cui aveva aderito per conformismo borghese o forse solo per ambizione economica. L'azione si sposta poi vorticosamente nella Milano livida del dopoguerra e infine sulla riviera romagnola, dove il capostipite Hans dopo la morte della moglie ricostruisce una vita per sé e per le figlie Helga e Hilde. Un nuovo mondo sotto la cappa oscura della dimenticanza, accordato al ritmo della ricostruzione che addomestica la natura col cemento, la televisione, i rituali del consumo.
La storia è ricostruita in un lungo stream of consciousness dalla più fragile e sensibile delle gemelle, Hilde, per il cui destino inquieto si parteggia con passione. Replicare nella sfera economica e finanziaria le dinamiche totalitarie applicate ai rapporti lavorativi e familiari: ricominciare a vivere significa, purtroppo, anche questo. Mentre la sua morale non lascia scampo, La gemella H è in realtà un romanzo eccezionalmente denso di rimandi, luoghi, immagini, visioni, digressioni e trasgressioni: da togliere il fiato.
Giorgio Falco
La gemella H
Einaudi
354 pp.
Capitolo finale di una trilogia iniziata con i precedenti Occidente per principianti (2004) e Riportando tutto a casa (2009), trasfigura in termini narrativi gli ultimi trent'anni di storia italiana, applicando a tutto campo il concetto di ferocia: dal particolare all'universale e viceversa, squadernandoci così davanti agli occhi, con un pizzico di ferocia, com'è che va il nostro mondo. La dinastia dei Salvemini, potenti costruttori baresi, viene sconvolta dalla morte della trentenne primogenita, Clara. Sul canovaccio noir lo scavo nella psicologia delle persone - su tutti quella della sfuggente protagonista ricostruita in flashback ("un imprendibile composto di pensieri altrui") - si estende agli oscuri meandri di una famiglia potente avviata verso la rovina, poi alla residualità corrotta della borghesia imprenditoriale italiana di questo scorcio di millennio, per arrivare a sfiorare le radici più profonde dell'angoscia e del male.
La prosa di Nicola Lagioia è prensile, coinvolgente, tensiva. Possiede il dono o meglio la tecnica straniante, come è stato detto, di "far vedere tutto come per la prima (o l'ultima) volta". Privo dei guizzi virtuosistici dei precedenti romanzi, più strutturato senza perdere in empatia e immediatezza, La ferocia ha una densità e un respiro da romanzo internazionale, pur raccontando una storia molto italiana.
Nicola Lagioia
La ferocia
Einaudi
415 pp.
[La lista è stata pubblicata la prima volta nel marzo del 2016; è stata aggiornata nel maggio del 2018 con altri cinque titoli]