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March 14 2017
Per Lookout news
Durante la conferenza di metà febbraio organizzata a Washington D.C. dalla NDIA, la National Defense Industrial Association americana, è emersa con allarmante chiarezza la preoccupazione da parte della comunità d’intelligence e delle forze armate nazionali in relazione all’uso spregiudicato dei droni da parte di milizie irregolari, in particolar modo jihadiste, nei teatri di guerra quali Siria, Iraq eYemen.
Il problema è sempre più sentito, dal momento che la nuova dottrina Trump prevede un sensibile incremento delle operazioni di terra con impiego di soldati “boots on the ground” nei teatri guerra per avere ragione di terroristi e organizzazioni anti-sistema, che perciò sono esposti alle incursioni dei veicoli senza pilota, di difficile intercettazione.
Dopo che questo strumento per anni è stato a uso esclusivo delle forze militari statunitensi – sono note le “killing machines” dell’amministrazione Obama – oggi sono sempre più paesi a produrre droni in grado di offrire performance impressionanti, e molte milizie indipendenti sono ormai capaci di armare questi aerei senza pilota dopo alcune modifiche sui modelli, violandone anche i sistemi software. La preparazione dei piloti da terra, sinora, aveva costituito un freno alla proliferazione dell’utilizzo dei droni, ma con il tempo la tecnica è divenuta sempre più disponibile e gli istruttori meno rari d’un tempo. Scuole e istruttori ad hoc si stanno diffondendo un po’ ovunque, specie in Medio Oriente.
A preoccupare le istituzioni della difesa americane, più che il livello tecnologico raggiunto oggi dagli UAV (Unmanned Aerial Vehicle), è soprattutto il loro improvviso incremento in situazioni di battaglia: impiegati massicciamente da parte dello Stato Islamico ma anche da altre forze paramilitari, è stato dimostrato che i droni “fai-da-te” possono essere armi letali e difficilmente arginabili. Oltre a fornire informazioni utili dal cielo.
Tutto questo offre la possibilità alle forze paramilitari che dispongono solo della fanteria di raggiungere zone sinora inaccessibili senza essere intercettati. Lo Stato Islamico, ad esempio, tenta oggi di sopperire la mancanza di aerei, elicotteri e spesso artiglieria pesante proprio con simili mezzi. La reperibilità dell’oggetto, il costo relativamente basso e la facilità di manovra ha messo così a disposizione del mercato globale un’arma micidiale che, se non contenuta per tempo, rischia di provocare seri danni in ogni contesto nel quale si usano tecniche di guerra ibride.
Tutto ciò apre dunque a una serie d’interrogativi. Alcuni tra i principali esperti di sicurezza e del controterrorismo statunitense si domandano come sia possibile frenare la disponibilità di una tecnologia sempre più economica e facile da gestire che può portare a conseguenze imprevedibili. La comunità di addetti ai lavori per adesso è divisa. Secondo molti, dovrebbe essere l’industria della difesa a trovare le risposte adeguate alle sfide che i droni si portano dietro: missili anti-drone, recettori, spie e rilevatori di movimento potrebbero essere una risposta in tal senso.
I casi più eclatanti di uso di droni
Per il momento, però, non vi sono ancora contromisure indicate né un protocollo per far fronte alla minaccia. Alcuni recenti eventi – come le bombe sganciate dai droni e piovute sopra i tank della coalizione internazionale a Mosul documentate nei video dello Stato Islamico (realizzati dai droni stessi), o come l’esplosione di una barca senza equipaggio fatta detonare contro una fregata saudita nelle acque dello Yemen lo scorso 30 gennaio, che ha causato 5 morti e numerosi feriti – dimostrano che l’impiego di droni dà risultati che, nel tempo, potrebbero portare i jihadisti a sostituire le azioni kamikaze con innumerevoli missioni via drone.
La corsa all’uso degli UAV coinvolge tutte quelle formazioni militari o paramilitari che necessitano di colmare il gap tecnologico con forze nettamente superiori: non solo lo Stato Islamico, anche i ribelli Houthi dello Yemen e, soprattutto, i terroristi libanesi di Hezbollah sono sempre più interessati alla faccenda. Già oggi, l’Iran offre loro supporto e assistenza, in particolare da quando Teheran ha potuto studiare da vicino un predator americano (il primo drone da ricognizione e attacco in dotazione alle forze armate americane), dopo che un esemplare è precipitato in territorio iraniano nel 2011.
Anche i cinesi sono coinvolti nel business militare del momento. Ed è chiaro che la situazione si va facendo allarmante, se è vero com’è vero che le politiche di Washington volte a limitare la diffusione della tecnologia dei droni si sono rivelate un insuccesso totale, tale per cui oggi questo mezzo è uno strumento sempre più diffuso e utilizzato, che potenzialmente ha le caratteristiche per annullare alcuni dei vantaggi di chi opera in un contesto di guerra con mezzi corazzati e corpi speciali contro guerriglieri scarsamente dotati.
I celebri predator, intanto, hanno fatto il loro tempo ed è stato appena annunciato che verranno ritirati dal mercato, in considerazione del fatto che sono ormai obsoleti: impiegati a partire dal 2002 in Afghanistan, dopo quindici anni e 563 strike (soprattutto tra Pakistan, Somalia e Yemen) secondo il Pentagono è giunto il tempo del loro pensionamento.
Questo darà ora la possibilità agli analisti militari di rivedere forse per la prima volta criticamente la storia di un’arma ibrida, che ha offerto la possibilità di portare avanti una guerra a basso costo, senza sacrificare soldati, ma dai risultati scarsi in termini di vite salvate e contenimento della minaccia alla pace. Considerato anche il fatto che il numero di vittime civili dei predator USA è stato stimato dal Bureau of Investigative Journalism tra 384 e 807. Chissà quante vittime faranno i terroristi se non si troverà un modo per impedire che siano i non-militari a fare un uso indiscriminato delle “killing machines” e al di fuori di qualsiasi regola d’ingaggio.