Lifestyle
July 01 2013
Per motivi che spiegherò, chi conosce le tribolazioni dell’attesa non farà mai aspettare nessuno, nemmeno se il suo animo fosse contrassegnato dalla volontà di nuocere al prossimo.
Solo le persone puntuali hanno un’idea della difficoltà di gestire l’affollamento dei demoni quando si aspetta qualcuno che ritarda. So per, diciamo, esperienza diretta, che i nevrotici preferiscono arrivare un’ora prima che dieci minuti dopo. Per questo mi ha molto stupito leggere nei suoi Diari che Kafkanon riusciva ad essere puntuale: mi riservo di considerare che oltre una certa soglia di complicazione una psiche possa fare il giro e tornare a comportarsi nei limiti della norma: «Arrivo sempre tardi», disse a Gustav Janouch. «Vorrei dominare il tempo, ho la sincera volontà di osservare l’appuntamento, ma il mondo intorno a me o il mio corpo spezza sempre questa volontà per darmi prova della mia debolezza».
Invece, chi è abituato ad aspettare conosce quale realtà malefica diventi il mondo sotto il periscopio dell’attesa; conosce l’alterazione del senso del tempo prodotta dalla contemplazione della buca, con tutte le elucubrazioni filosofiche che si porta dietro; conosce il sentimento del disprezzo di sé, dell’odio per la sua natura e dell’invidia di chi non vive la puntualità come un imperativo morale.
Cosa fa l’altro mentre lo aspettiamo? Niente, di solito non fa niente. Fidatevi. Non si affretta, non scalcia, non si libera, non è in ansia, non pensa a noi. Forse non vuole la nostra morte, ecco, ma è indifferente alla possibilità che accada. Finché non ci incontra, per lui non esistiamo. Sa che deve venire a incontrarci, ma ha una diversa percezione del tempo: che per noi è un’angolosa radura ricoperta di spilli, per lui è una collina boscosa su cui scivolare placidamente fino a valle.
Cosa succede a chi aspetta? Nessuno lo ha raccontato meglio di Flaubert. «È adesso, adesso» pensa consumandosi Frédéric ne L’educazione sentimentale, mentre aspetta Madame Arnoux. «“Ecco, esce di casa, s’avvicina”… E un minuto più tardi: “Avrebbe già avuto il tempo d’arrivare”».
Impossibile restare calmi: è una violenza su di sé, che impedisce di concepire la realtà delle cose: «Ma no, non è ancora in ritardo; un po’ di pazienza, diamine!».
Il mondo tutto diventa ostile, sciocco, preso nell’incanto malvagio dell’insignificanza: «E passava in rassegna, non sapendo che fare, le poche vetrine: una libreria, un sellaio, un’impresa di pompe funebri. Ben presto conosceva a memoria tutti i titoli dei libri, i finimenti, le stoffe. I negozianti, a furia di vederlo passare e ripassare senza sosta, cominciarono a stupirsi, poi, presi da timore, tirarono giù le saracinesche».
Inizia l’opera del Super-Io, flagello di chi desidera giustificare e perdonare: «Senza dubbio aveva avuto qualche impedimento, e certo anche lei ne soffriva. Ma che gioia, tra poco! perché stava per venire, questo era sicuro. “Me l’ha promesso!” Eppure, un’insopportabile angoscia s’impadroniva di lui».
Non resta che affidarsi all’irrazionalità più completa. Andarle incontro. Ma dove?
«Obbedendo a un moto insensato entrò nella casa, come se avesse potuto esser là. E magari, proprio in quel momento, lei stava arrivando nella strada. Si precipitò fuori. Nessuno! E ricominciò a percorrere il marciapiede. Osservava le crepe del selciato, le bocche dei canali di gronda, i lampioni, i numeri sopra i portoni. Gli oggetti più insignificanti erano diventati per lui dei compagni, o meglio degli ironici spettatori; le facciate uniformi delle case gli sembravano prive di pietà. Sentiva freddo ai piedi. Era come spolpato dall’angoscia della delusione. I suoi passi gli facevan rintronare il cervello».
Quando ci si accorge che il nemico non esiste più, che il nostro cervello ormai gira a vuoto e galoppa a briglia sciolta nella landa desolata del “nulla a procedere”, è ormai troppo tardi:
«Quando s’accorse che il suo orologio segnava le quattro provò come una vertigine, un tuffo di spavento. Si sforzò di ripetersi dei versi; di fare un calcolo, non importava quale; d’inventare la trama d’una novella. Impossibile: l’immagine di Madame Arnoux l’ossessionava. Aveva voglia di correrle incontro. Ma che percorso doveva scegliere per esser sicuro d’incrociarla?».
Possibile l’allucinazione, incentivato il delirio: «Sforzava le pupille per riconoscere il volto», e addirittura «Traeva presagi dal numero di monete prese su a caso con la mano, dalla fisionomia dei passanti, dal colore dei cavalli; quando il vaticinio era avverso cercava di non crederci. Negli attacchi di furore che lo prendevano contro Madame Arnoux, la insultava a bassa voce. Debolezze da svenire s’alternavano a soprassalti di speranza».
Tempo fa ho deciso di sommare tutti i minuti persi arrivando puntuale: dopo sei mesi ero arrivata a numero di ore stordente. Se avessi continuato, sarei adesso a qualcosa come una settimana di vita. Una settimana di vuoto, di nulla. Un buco nero irrecuperabile e inutile: come giocare a uno sparatutto per giorni e giorni.
Una soluzione che mi è stata suggerita: prova ad arrivare in ritardo. Illusi. Cosa farei nel frattempo? Si tratta pur sempre di aspettare, nello specifico che scatti l’ora di un appuntamento, per poi oltrepassarla e presentarsi in ritardo. Ma con quanto ritardo? Mettiamo il caso di un incontro con un ritardatario cronico: è come la tartaruga con Achille. Sarà sempre un po’ più in ritardo di noi. L’attesa a cui lo sottoporremmo sarebbe malsana in primo luogo per noi, che dobbiamo ingegnarci a occupare quel tempo che in condizioni normali sarebbe deputato all’incontro: cosa fare, nascondersi dietro l’angolo e osservare l’altro che arriva, si posiziona, guarda l’orologio, osserva le facce dei passanti, cambia piede d’appoggio, si volta verso una vetrina, sbuffa? Sarebbe bello, sì. E se per una nefasta possibilità l’altro, quello da fare aspettare, arrivasse a sua volta in ritardo, così che il tranello dell’osservarlo si trasforma in una doppia attesa, sfinente, in cui al tempo occorrente a quello per giungere sul luogo dell’appuntamento bisogna sommare quello che serve a farlo aspettare? Nessuna psiche può sostenere una cosa simile. Questi due semplici esempi dovrebbero bastare a a dimostrare che non c’è salvezza, per i destinati all’attesa.
I puntuali, poi, non sono amati: chi arriva in orario accoglie sempre l’altro con una accusa sulla faccia, che l’altro, se è intelligente, interpreta sempre nel modo corretto. Nessuna scusa, nemmeno la più grave, può annullare quel credito a cui il nostro silenzio in apparenza clemente ma in realtà risentito lo consegna.
Giunti al punto di ebollizione dell’attesa, si produce il fenomeno per cui quasi si spera che l’altro non arrivi più, per avere ragione di odiarlo definitivamente. E invece quello arriva, quasi sempre.
Ma è davvero così importante che l’altro arrivi in tempo, o che, semplicemente, arrivi? Perché non ce ne andiamo dopo dieci minuti, tutti, sempre, migliorando l’umanità, una volta tenuto conto che la persona che si sta aspettando non è Kafka?
Questo è il mio appello, corroborato dalla pulizia e dalla giustezza geometrica delle parole di Thomas Bernhard, che in Antichi maestri scrive:
«[Non] sono mai arrivato in ritardo per colpa mia, le persone non puntuali sono ai miei occhi le più disgustose, con le persone non puntuali non ho niente da spartire, con le persone non puntuali non ho rapporti, con le persone non puntuali non ho niente a che fare, non voglio avere niente a che fare. La mancanza di puntualità è un difetto inammissibile che io disprezzo e aborrisco, e che agli esseri umani non procura altro che solitudine e infelicità. La mancanza di puntualità è una malattia che porta alla morte chi non è puntuale», oltre ovviamente a quella di chi lo è.