Dal Mondo
July 12 2023
«Il confronto con i profili dei discendenti dei soldati (…) ha consentito di rilevare i seguenti “match”: OR3, nipote (di zio) del caduto D. F., e la rocca petrosa destra (parte laterale del cranio, ndr) della cassetta 9 - OR14, pronipote (di zio) di C. G., e i campioni di rocca petrosa destra e femore destro contenuti nella cassetta 21».
Finalmente, un nome. Ai resti delle vittime dei partigiani di Tito - militari italiani trucidati a Ossero, nel 1945- l’Università di Trieste è riuscita a far corrispondere le generalità di questi due marò, per ora indicati con le iniziali. Complessivamente, a oggi, sono cinque i caduti ignoti identificati grazie all’esame del Dna. L’indagine genetica guidata da Paolo Fattorini, direttore della Scuola di specializzazione in Medicina legale del capoluogo giuliano, sta procedendo. Il «cold case» della storia è l’obiettivo del progetto promosso da Panorama nel gennaio del 2021, con una raccolta fondi fra i lettori che è arrivata a 26.293 euro, per identificare appunto i 21 marò della X Mas sepolti in una fossa comune a Ossero - sull’isola di Cherso oggi croata - assieme a 6 militi del battaglione Tramontana di Cherso. Prigionieri di guerra inermi che si erano arresi, il 21 aprile 1945 a Neresine, sull’isola di Lussino, fatti oggetto di violenze inaudite prima di venire uccisi barbaramente il giorno successivo. Un crimine non solo accertato; dopo 78 anni a quei caduti ignoti si comincia a restituire la loro identità.
La tesi di laurea di Aurora Carnio su Gli eccidi della Seconda guerra mondiale descrive minuziosamente l’indagine genetica anche se per il vincolo di riservatezza imposto dalla Difesa «tutti i riferimenti specifici a luoghi e persone sono stati omessi». Panorama è in grado però di confermare che si tratta dei caduti, finora ignoti, di Ossero; e fino alla conclusione del percorso di identificazione non rivelerà le generalità complete dei marò accertati a Trieste, prima che vengano informati ufficialmente i familiari. «Non riesco neanche a parlare. È un’emozione troppo grande sapere che mio zio, dopo quasi 80 anni è stato identificato grazie al nostro Dna» spiega la discendente di uno dei marò. «Mai avrei immaginato di ricevere un dono del genere. Per la famiglia era disperso in mare» racconta dall’altra parte dell’Italia. La nonna aveva acquistato un loculo in cimitero e ci aveva messo la foto del figlio disperso e la data di nascita, ma era rimasto vuoto. «Il nostro desiderio è portare mio zio a casa il prima possibile» afferma. «Avremo un posto dove pregare e deporre un fiore sapendo che sono i suoi resti terreni».
di Fausto Biloslavo
Il «cold case» più famoso dei crimini compiuti dai partigiani di Tito è la scoperta della fossa comune dove venne gettato a guerra finita il corpo del senatore del Regno d’Italia Riccardo Gigante, assieme ad altri otto italiani. Nel 2019 i resti sono stati riesumati e il Ris dei carabineiri di Parma li ha identificati grazie all’analisi del Dna. Un anno dopo l’amico fraterno di Gabriele D’Annunzio è stato tumulato al Vittoriale (nella foto a destra). Nell’ottobre del 1944 le forze di Tito arrivarono a Ragusa/Dubrovnik, la perla della Dalmazia. E iniziarono le esecuzioni sommarie, soprattutto sull’isola di Daksa.
Dopo oltre 70 anni sono state identificate 14 vittime delle 53 scoperte in una fossa comune. Nel febbraio 1945 i soldati titini torturano, prima di eliminarli, 18 «nemici del popolo» compresi 8 monaci sepolti in una fossa a Zagvozd. Il sequenziamento del cromosoma Y, dopo l’estrazione del Dna da ossa e denti e il confronto con quello dei familiari ha permesso di risalire all’identità di tre scheletri. Anche in Bosnia Erzegovina, nel 2011, sono stati riesumati 60 scheletri nella zona di Ljubuški. Grazie al confronto con il Dna di 12 familiari è stato possibile dare un nome ai resti di sei vittime. Paolo Fattorini, esperto di identificazione genetica dell’Università di Trieste, grazie alle avanzate tecniche denominate «next generation», ha collaborato con gli sloveni in vari «casi freddi». I resti di una famiglia trucidata nel 1942 sono tornati ad avere un nome e un cognome, così come una coppia di aristocratici eliminati nel 1944.
Lo studio sui resti della foiba di Konfin è poi unico. Negli archivi dell’Ozna, la polizia segreta di Tito, esisteva la lista di 88 prigionieri passati per le armi e infoibati nel giugno 1945. Così è stato possibile rintracciare i familiari di 36 vittime e 28 sono state finalmente identificate.
La tesi di laurea ricostruisce il calvario dei militari italiani brutalmente giustiziati: «I crani di 26 cassette (…) riportano lesioni (…) da arma da fuoco e corpo contundente». Lo studio antropologico svolto all’università di Bari non soltanto ha ricomposto gli scheletri, ma ricostruito come sia avvenuta l’esecuzione. I prigionieri sono stati portati a Ossero dietro a una chiesa, dove hanno scavato la fossa comune sotto la minaccia delle armi. Poi sono stati allineati sul bordo, davanti al muro del piccolo cimitero e probabilmente fatti inginocchiare. Carnio scrive, nel suo lavoro: «È ipotizzabile che gli esecutori (i partigiani di Tito, ndr) abbiano sparato sia ponendosi davanti alle vittime» in una sorta di fucilazione. Le ossa, però «parlano» e i fori dei proiettili dimostrano come «circa la metà dei militari abbiano ricevuto un colpo d’arma da fuoco alla nuca». Non solo: gli aguzzini hanno usato anche una mazza ferrata e un altro corpo contundente per fracassare la testa ai marò. La tesi elenca i dettagli delle lesioni alla scatola cranica: «La maggior parte (18) ha forma rettangolare invece, 2 hanno forma triangolare e 2 sono rotondeggianti». Una volta gettati nella fossa i prigionieri senza vita «si ipotizza che (...) dei mezzi pesanti abbiano schiacciato i corpi allo scopo di occultarli».
Giusta o sbagliata che sia stata la scelta dei marò di aderire alla Repubblica sociale italiana, per difendere un lembo d’Italia, nessuno, ancora meno senza processo, può subire questa sorte. «L’accanimento con la mazza ferrata e torturati nel totale disprezzo dell’essere umano. X Mas? Erano prigionieri e dovevano venire trattati come tali. Non c’è dubbio che sia un crimine di guerra» osserva Francesco Introna, direttore dell’Istituto di Medicina legale a Bari ed esperto in antropologia forense, che ha esaminato per mesi i resti dei marò. Nel 2019 il Commissariato generale per le onoranze ai caduti del ministero della Difesa, in collaborazione con le autorità croate, aveva finalmente riesumato dalla fossa di Ossero i resti dei soldati italiani. Il primo a svelare la storia celata dei marò trucidati dai titini è stato il capitano Federico Scopinich, grazie a testimonianze raccolte sul posto. «A Neresine qualcuno ha continuato a dire che non era vero nulla» spiega Scopinich. «Sosteneva che i marò erano stati gettati in mare e che dopo 70 anni è impossibile fare l’esame del Dna». Dopo la riesumazione le 27 cassette che portavano la scritta «caduto ignoto», avvolte dal Tricolore, sono state trasferite con tutti gli onori al Sacrario militare di Bari dei «70 mila periti oltremare nella Prima e Seconda guerra mondiale». Fino a quando, alla fine del 2020, Licia Giadrossi, presidente degli esuli della Comunità di Lussinpiccolo ha proposto a Panorama di promuovere una raccolta fondi sul sito per identificare i marò.
In centinaia hanno donato con slancio, compreso il generale Mario Arpino, ex capo di stato maggiore della Difesa, l’Associazione degli incursori di Marina, ma anche i parenti di Norma Cossetto, la martire istriana violentata e infoibata dai partigiani di Tito, esuli, persone comuni e un folto gruppo di amici di Bologna. I 26.293 euro raccolti hanno permesso di attivare il progetto coinvolgendo le università di Bari e Trieste grazie a una convenzione firmata con lo stesso ministero della Difesa. «OR2, nipote (di zio) di BI. E., e la rocca petrosa destra, la parte laterale del cranio, della cassetta 22; OR15, figlio di M. G., e la rocca petrosa destra della cassetta 27» sono altri due «match» di identificazione. «È stato un lavoro complicato e coinvolgente» dice Carnio che ha partecipato all’indagine genetica. «Uno degli scopi della medicina legale è identificare i resti umani, che significa anche ridare giustizia e dignità alle vittime».
Il primo passo dell’identificazione è stato rintracciare i discendenti dei marò. Impresa tutt’altro che facile, in cui si è impegnato Riccardo Maculan, ex carabiniere e ricercatore storico, che ha trovato i familiari di 14 marò. «Recuperare i fogli matricolari è stato il vero problema» spiega. «Sono importanti per i dati come altezza e dentatura che vengono utilizzati per i riscontri sull’identità». Il professor Fattorini sottolinea che «dopo così tanto tempo si tratta soprattutto di nipoti, ma c’è anche qualche sorella e un figlio che vive negli Stati Uniti. Abbiamo realizzato dei “kit” di autoprelievo del campione salivare utilizzato per l’esame del Dna».
In questa fase sono stati selezionati i campioni di sette discendenti dei marò, lungo la linea paterna, per il confronto grazie al cromosoma Y. I campioni, ricavati dai resti, sono stati in totale 341 fra denti, femori, tibie, parti del cranio. Il complesso lavoro di confronto ha portato in sette mesi «a cinque identificazioni su sette Dna dei familiari selezionati, un ottimo risultato» spiega Carnio. «Il prossimo passaggio è analizzare altre ossa dei caduti per ottenere nuovi profili da confrontare con i campioni salivari degli ulteriori parenti». Giadrossi, la presidente degli esuli di Lussino che ha promosso l’iniziativa, ricorda che «nel 2008 è stata posta una targa sul luogo dell’eccidio. Grazie all’identificazione con il Dna abbiamo affermato una verità negata». I resti di altri marò potrebbero venire identificati nei prossimi mesi. Introna, che assieme a Luigi Antonio Fino, ha aderito per primo all’indagine su questo caso ha «un sogno: la partecipazione del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, alla cerimonia solenne per consegnare i resti ai familiari, quando sarà identificato il maggior numero possibile di caduti».