Dal Mondo
November 19 2024
Russia-Ucraina, qualcosa si muove. Un evento nuovo nello scenario internazionale, anzi due, hanno scosso la terra immobile in cui stanno affondando sempre più gli eserciti di Kiev e Mosca - con la variabile Corea del Nord, la cui partecipazione al conflitto è il terzo evento che sovverte l’inerzia degli ultimi mesi di guerra e rappresenta un possibile «game changer».
I primi due sono l’avvicendamento occorso alla Casa Bianca, con il ritorno spettacolare di Donald Trump alla guida della superpotenza americana; e il terremoto nel governo tedesco, che ha spinto il dimissionario cancelliere Olaf Scholz a telefonare in limine mortis a Vladimir Putin (lo storico filo diretto Mosca-Berlino non è mai stato reciso) per dirgli senza mezze misure: «Ritira le truppe e negozia con Kiev». «Va bene» ha risposto il presidente russo, quasi lusingato dal gesto inconsueto di uno dei maggiori sostenitori dell’Ucraina, «ma l’accordo si fa solo in base alle nuove realtà territoriali». Non è molto, ma è un segnale.
Cosa ci dice questo siparietto, che peraltro è confermato da fonti accreditate, al contrario della telefonata Trump-Putin, smentita dai diretti interessati e ad oggi sostenuta solo dal Washington Post? Ci informa che, probabilmente per la prima volta, si sono create le condizioni minime per intavolare una discussione seria, con tanto di cartine alla mano, e tutte le parti sono pronte ad ascoltare le offerte di pace e a valutarle.
Provate a chiedere a Volodymyr Zelensky, il quale dopo la telefonata di Scholz ha dichiarato: «L’Ucraina deve fare di tutto per porre fine alla guerra nel 2025 attraverso la via diplomatica» aggiungendo poi quasi per obbligo, «ma solo se si parte da una “Ucraina forte”». Non sembrerà un granché, ma per il dizionario diplomatico è già molto, un grande passo in avanti. Significa che il «vaso di Pandora» - come Zelensky stesso ha stigmatizzato la chiamata Scholz-Putin - è stato aperto e, come vuole il mito, non si può ritappare. Con tutte le conseguenze che questo fatto implica.
In primis, non si può tornare indietro dall’elezione americana e dunque dalla volontà assoluta di Donald Trump di intestarsi una pace storica nella turbolenta regione della Russia europea, antipasto della sua politica estera, per poi puntare a «ripetere il miracolo» anche in Medio Oriente dove - almeno nella mente di Trump - Arabia Saudita e Israele insieme possono indirizzare la transizione della regione da teatro di guerra a una pacifica rinascita del capitalismo arabo, con l’Iran ridimensionato e normalizzato.
Il presidente americano non vuole un accordo sulla testa dell’Ucraina, né intende concedere a Putin più di quanto non valga: da buon venditore, pensa che un pessimo accordo tra Russia e Ucraina sia meglio di nessun accordo. «La devono smettere» ha sentenziato, come farebbe un maestro che vuole separare due alunni riottosi. Ma intanto ha ottenuto l’attenzione del ministro degli Esteri Sergey Lavrov. In ombra da qualche tempo, è riemerso dalle oscure stanze del Cremlino dove si era barricato, per dichiarare: «Aspettiamo le proposte americane, hanno tutta la nostra attenzione» e questa è certamente una mano tesa della diplomazia russa, che va nella direzione auspicata.
In secondo luogo, c’è la volontà - ancora una volta americana - di non abbandonare davvero l’Europa e la Russia ai propri destini, perché questo significherebbe per entrambi (sia pur per ragioni diametralmente opposte) finire prima o poi nelle mani della Cina. Per la Russia è già così, e quei continui summit dei Brics - che intendono sovvertire l’ordine mondiale guidato dal dollaro americano – ne sono un chiaro segnale, che Washington si guarda bene dal sottovalutare.
In terzo luogo, nel conflitto russo-ucraino la Cina ha tutto da guadagnare e oggi incarna appieno il proverbio attribuito a Confucio secondo cui sedendosi sulla riva del fiume ad aspettare, prima o poi vedrà il cadavere del nemico passare. Pechino non ha alcuna fretta di vedere Kiev e Mosca negoziare una pace; al contrario, dalla sua posizione privilegiata attende di capire come si comporrà questa crisi, approfittando della debolezza di ogni parte in gioco.
Come i politologi sanno bene, in politica bisogna indicare sempre un obiettivo da raggiungere e, nel caso di un impero, è indispensabile eleggere anche un nemico, vero o presunto. Donald Trump ha scelto Xi Jinping e la Cina quale rivale, una superpotenza da contenere e a cui è indispensabile contendere le alleanze strategiche. La Russia, per peso specifico, partecipa a un campionato inferiore e non è neanche lontanamente all’altezza della Cina, il solo Paese che riesce davvero turbare i sonni dell’élite capitalista americana.
Se Usa e Cina nel contesto geopolitico e geoeconomico odierno non possono che essere due statualità opposte e antitetiche, altrettanto non si può dire per Mosca, che in definitiva è Europa e, se non fosse per l’impronta guerrafondaia di Vladimir Putin, con lei si potrebbe collaborare amabilmente: come del resto ha fatto per decenni la Germania, fino a che l’esplosione del gasdotto Nordstream 2 non ha reciso definitivamente un cordone ombelicale che tra i due Paesi durava almeno dalla seconda guerra mondiale (suggellata dalla Ostpolitik). Come la spartizione del «Reich» tra Stati Uniti e Russia segnò il cambio di un’epoca, così sempre dalla Germania venne anche il segnale che un’era stava ormai finendo: accadde quando al crollo del Muro di Berlino corrispose la fine dell’Unione Sovietica e a poco a poco l’ascesa del regime putiniano disegnò un mondo nuovo. Oggi Berlino non conta più così tanto, e anzi la sua diminutio preoccupa non poco gli altri Stati d’Europa e la Russia stessa.
Anche per questo, oggi ci sono più probabilità che mai di giungere a un tavolo negoziale. Prima che l’Ucraina collassi sotto i colpi inesorabili delle inesauribili armi di cui dispone il Cremlino, grazie alla solidarietà di altri dittatori. Prima che la Russia finisca per sottomettersi alla Cina, alienandosi definitivamente dall’Occidente. Prima che tra la Corea del Nord e la Corea del Sud si riaccendano antichi dissapori. Prima che le tentazioni di Israele e Iran di scontrarsi si considerino come giustificate da altre guerre in corso. Prima che la Turchia si trovi sbilanciata verso Est. Prima che uno o più Paesi dell’Alleanza atlantica distruggano la Nato per autoconsunzione. Prima che l’Europa diventi nuovamente il teatro di un conflitto mondiale.