Il bene mio, Pippo Mezzapesa: "Viviamo in un'epoca di crolli"
Provvidenza è un borgo fantasma. Un terremoto ha spazzato via vite, futuro e speranza. Ma lì è rimasto Elia, che nel nome profetico sembra avere già in sé una missione: è lui il custode dei ricordi di una comunità perduta, trasferitasi a valle. Lo incarna con la sua fisicità nervosa e vitale Sergio Rubini, diretto con poeticità pensosa e materica da un altro pugliese, Pippo Mezzapesa, che nel suo secondo film di finzione Il bene mio conferma tutta la profondità di mano e visione mostrata nel film di esordio Il paese delle spose infelici (2011).
Dal 4 ottobre al cinema distribuito da Altre Storie, che con Rai Cinema è anche produttore, Il bene mio è stato presentato alle Giornate degli autori all'ultima Mostra del cinema di Venezia.
Perché il titolo Il bene mio, che riprende la canzone che sul finale risuona, Lu bene mio di Matteo Salvatore, anche lui pugliese?
"Il titolo è stato molto discusso in fase di sceneggiatura (scritta dallo stesso Mezzapesa con Antonella Gaeta e Massimo De Angelis, ndr) e anche dopo. Non è stato il primo titolo del film, come spesso capita. Nasce dall'ascolto illuminante di questa canzone di Matteo Salvatore, che conoscevo; tra l'altro forse è la sua unica canzone d'amore, che racconta di una fuita, di una fuga d'amore di due giovani, quindi della nascita di un amore. Nel tentativo di fare un racconto di contrasti e di un amore spezzato come quello di Elia per sua moglie, mi sembrava forte racchiudere tutto in questo titolo, affidarsi al titolo di una canzone che racconta invece l'inizio di un amore. E poi 'Il bene mio' mi sembrava che potesse riassumere tutto quello per cui combatte Elia: il passato, l'amore, la memoria di questo luogo che è stata dimenticata e oltraggiata. 'Il bene mio' riassume tutto quanto, sia il bene individuale che ha perso Elia, sia il bene collettivo di una comunità che ha tradito il proprio paese e che Elia vorrebbe riportare là sopra".
Vince chi resiste, ancorato al ricordo e a qualcosa che non c'è più, come Elia, o vince chi va via, voltando pagina e guardando al presente, come il resto della comunità trasferitosi a Nuova Provvidenza?
"In questo film ognuno ha le sue motivazioni. In fondo è un film sull'elaborazione del dolore, che a volte porta a strade contrapposte. C'è chi rimane ancorato a una realtà preesistente e cerca di riemarginare la ferita non dimenticando, non rimuovendo ma affrontando il dolore per cercare di esorcizzarlo, e chi invece preferisce fuggire. Credo che, a prescindere da tutto, dimenticare sia un errore, che smarrire la memoria non sia un presupposto giusto per andare avanti, per creare un futuro possibile. Elia è un custode della memoria che però non vuole che il mondo non progredisca. È convinto che per andare avanti bisogna conoscere bene chi si è stati e cosa si è".
Elia ha un nome profetico e vive in una cittadina chiamata Provvidenza. È un personaggio che vuole essere messaggero di qualcosa?
"Molte volte ci sono riferimenti che si danno in maniera conscia, altre che si danno in maniera inconscia e poi emergono nel corso della narrazione o vengono messi in evidenza da chi guarda il film. Sicuramente questi nomi sono importanti. L'idea di chiamare Provvidenza il paese rimanda un po' a quella che è la provvidenza del verismo, di Verga: nei Malavoglia c'è questa barca Provvidenza che naufraga, mentre in questo caso c'è una Provvidenza che si sgretola. L'idea è creare un contrasto: c'è un ordine superiore sovvertito completamente da questo terremoto, che invece arriva dal basso. Questo contrasto di energie mi sembrava affascinante. Elia, che richiama il nome del profeta, è un uomo che riesce a guardare oltre. Del profeta Elia si dice che non abbia mai conosciuto la morte perché asceso al cielo con un carro trainato da cavalli di fuoco. Anche il mio Elia è stato toccato dalla morte ma rifugge l'idea di morte. In questo il nome può avere una valenza simbolica".
L'Italia è terra di terremoti, non solo fisici. Anche culturali ed emotivi. Cambiamenti. Il suo è anche un film su come affrontare il cambiamento?
"È un film su come affrontare gli smottamenti della vita, i crolli, che sono sia fisici che mentali che ideologici. Viviamo in un'epoca di crolli. Credo che la comunità possa ritrovare se stessa solo se non smarrisce quello che è stata, se affronta questi crolli non con la fuga ma riappropriandosi di quei piccoli pezzettini di cui è fatta la sua esistenza per rifarsi comunità. La comunità di Provvidenza è andata via ma non ha chiuso la lacerazione. Forse ha bisogno di vivere questo dolore per andare avanti. La realtà di oggi riecheggia un pochino in questo film. Anche qui, il confine tra inconsapevolezza e consapevolezza nel dare riferimenti alla realtà, nel momento in cui si scrive una storia, è molto labile".
Però poi è sorprendente accorgersi di alcuni richiami all'attualità.
"Sì. C'è anche l'idea di confine. In fondo è un film sulle soglie: il muro che viene innalzato, l'impossibilità di Elia di scendere da questo paese e di superare la soglia della scuola in cui è morta sua moglie. Elia è una persona che ha difficoltà a superare le soglie, i confini, ma che quando gli capita che qualcuno varchi quei confini è una persona capace di accogliere, di amare. Il più grande parallelismo che ci può essere con la nostra realtà è che si parli di una cominutà che ha poca memoria e proprio per questa perdita di memoria ha paura del futuro e del diverso da sé. Credo questo sia il rapporto più forte con l'attualità che stiamo vivendo".
Il personaggio di Noor (interpretato da Sonya Mellah) sta a ricordarci questo?
"Sì. E sta a mettere insieme due modi di affrontare i drammi: Elia e Noor sono due personaggi che scappano dalla distruzione, Elia con la sua assoluta staticità, Noor invece con assoluta mobilità. Il bene mio fa incontrare queste due modalità: un uomo che si è chiuso nel suo mondo e una donna che invece percorre il mondo. Farli capire, farli unire e far sì che entrambi rappresentino per l'altro una via di salvezza mi pareva paradossale ma anche interessante".
Dove ha trovato la sua Provvidenza, il paesino che vediamo?
"È stato frutto di una ricerca molto laboriosa, ho girato tanto. In Italia ci sono tanti di luoghi abbandonati. Alla fine l'ho trovata in Apice. Il film è girato tra Apice, in provincia di Benevento, paese rimasto disabitato dal sisma in Irpinia del 1980, e Gravina di Puglia. Pretendevo che il film fosse girato in un vero borgo fantasma, nonostante tutte le difficoltà che questo avrebbe comportato, e devo dire che la produzione mi è stata vicina. Ambientare il film in un posto che non fosse realmente disabitato avrebbe ridotto la forza della storia. Questi posti disabitati hanno una voce particolare. Io non posso prescindere dal luogo. Girare in quelle strade realmente svuotate, con quel silenzio, con quei rumori impercettibili che si amplificano, ti dà un'emozione molto forte che inevitabilmente poi si trasmette alla storia".
Rubini è stata la scelta a priori su cui ha creato il personaggio, che gli calza a pennello?
"Rubini c'è dall'inizio. Dal momento in cui il film è stato pensato ho individuato in lui Elia. Non volevo un personaggio che fosse solo un eremita, che si stacca dal mondo e si lascia andare. Volevo un personaggio che avesse molte sfaccettature. Che avesse un profondo dramma ma fosse anche vitalistico, solare, forte. Sergio ha in sé questa dicotomia molto spiccata. Ed è un privilegio poi riuscire a lavorare con l'attore che ha dato il volto e le movenze al personaggio sin dall'inizio. È stata una bella esperienza lavorare con lui perché c'è stato un confronto molto intenso sul personaggio che ci ha portati anche ad arricchirlo molto sul set".
La frase del film: "Ognuno reagisce come può".
OUR NEWSLETTER