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Il codice antimafia è sbagliato: il parere di Francesco Petrelli

Sulla riforma del Codice antimafiaFrancesco Petrelli, segretario nazionale dell’Unione delle camere penali italiane, ha scritto questo intervento per Panorama.it.

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Gli anni Novanta avevano visto aprirsi nel mondo della giustizia il conflitto fra vecchio e nuovo modello di processo penale, giocato tutto sulle regole nuove e chiare del contraddittorio nella formazione della prove e sulla centralità del dibattimento. Un conflitto che nasceva dalla resistenza opposta dalla magistratura a tale nuova concezione della dialettica processuale, maturava nelle sentenze della Corte costituzionale insorta a difesa dell’ancient regime e conclusa a fine decennio con la faticosa conquista del nuovo assetto costituzionale, coronato dalla riforma dell’articolo 111 della Costituzione e dall’affermazione dei principi del “giusto processo”.

Ora il conflitto fra vecchio e nuovo modello, fra garantismo liberale e giustizialismo, fra ideologie autoritarie e matrici liberal-democratiche, proprie del moderno Stato di diritto, sembra essersi decisamente spostato fuori dal processo e dai suoi pur angusti e precari equilibri, nei quali riforme disorganiche e improvvisate, nel volgere di poco meno di un ventennio, lo hanno ricollocato. 

La progressiva espansione degli strumenti tipici del contrasto alla criminalità organizzata mafiosa, delle misure di prevenzione personali e patrimoniali, attuata dal Parlamento ai fini di contrasto di una serie di reati contro la pubblica amministrazione, tanto numerosi quanto eterogenei, sembra dimostrare infatti come si persegua un disegno di evidente spostamento delle riforme in materia di giustizia: dallo spazio presidiato dal principio di legalità, dallo statuto della prova e dalle garanzie del “giusto processo”, allo spazio non garantito della confisca e delle altre pervasive misure di prevenzione, ritenute utili ai fini del contrasto di quei singoli  fenomeni criminali. 

Di questo dato incontrovertibile dovrebbe essere consapevole il ministro Andrea Orlando quando difende la riforma, affermando che si sarebbero estese le garanzie del contraddittorio, facendo del procedimento di prevenzione un “piccolo processo”, mentre sa che anni luce lo separano dalle garanzie del  “giusto processo”, e dai principi della nostra Costituzione, e che all’inopinato ampliamento della applicazione delle misure non ha corrisposto alcun effettivo recupero dei diritti della difesa. 

E si tratta di un ampliamento considerevole. Anche sotto un profilo teorico. Quelli che erano i mezzi e gli strumenti attraverso i quali si perseguivano in via accessoria  finalità di lotta al crimine organizzato economico attraverso la sottrazione di capitali intrinsecamente produttivi di nuovi illeciti, e non dunque al contrasto dei reati di mero “profitto”, si trasformano ora in fini dell’azione giudiziaria, in quanto l'applicazione di quelle misure attinge in realtà l’obbiettivo che non si è capaci di raggiungere attraverso il processo.

Questa sostituzione delle misure preventive al processo penale, con quel che consegue in termini di esclusione delle garanzie convenzionali e costituzionali del giusto ed equo processo, determina un vero e proprio deragliamento del sistema, in quanto questi strumenti allargati a contesti ordinari (per via di una equiparazione totalmente astratta, di natura etica e non criminologica: corruzione = mafia) finiscono con l’esercitare una funzione giudiziaria nuova e pericolosa  di riordino sociale ed economico. In un’ottica eticizzante nella quale il potere giudiziario non si limita a estirpare il male ma persegue la riorganizzazione del bene.

Si pensi in proposito allo strumento della “amministrazione giudiziaria” di imprese che può essere determinata dal solo sospetto di “condizionamenti” illeciti esterni anche solo “indiretti”. L’investimento della repressione penale sembra spostarsi dunque intenzionalmente dal terreno più garantito delle libertà personali a quello visibilmente più disarmato del patrimonio, la cui incauta aggressione appare tuttavia produttiva di evidenti effetti sociali, culturali ed economici altrettanto gravi. 

Si consegna così alla magistratura, pure in assenza di indici empirici o statistici che indichino un aumento del fenomeno corruttivo, un potere immenso e incontrollato che trasforma lentamente ma inesorabilmente il nostro sistema giudiziario in un sistema “disciplinare”, in quanto teso non più alla sola applicazione della legge penale, ma a governare, imponendo propri valori, spazi sempre più ampi della società, dell’economia, della vita dei cittadini. 

Ciò che non si è affatto considerato in questa improvvida riforma, è che l’intento di trovare scorciatoie all’accertamento dei fatti di corruzione denuncia l'incapacità dello Stato di prevenire il fenomeno corruttivo, incentivando i controlli interni e drenando dal basso le ragioni culturali, organizzative e normative che lo favoriscono, e potenziando l’azione investigativa, che è già dotata di strumenti di indagine anche troppo invasivi, che da Tangentopoli in poi hanno portato a emersione un numero considerevole di illeciti, attraverso l’accertamento delle responsabilità dei singoli, il sequestro dei beni provento di quei delitti e l’applicazione delle relative condanne.

Bisogna pertanto dire con chiarezza che in tutto questo agitarsi del legislatore c'è un equivoco di fondo: è illusoria e perdente l’idea di poter contrastare la corruzione con  lo strumento processuale, anziché attraverso un investimento reale e duraturo sulla riorganizzazione della politica e dell’amministrazione.

Ma è tuttavia ancor più pericoloso collocare quell’azione di contrasto al di fuori dei limiti ragionevoli del processo e delle garanzie, dei diritti della persona e del diritto di proprietà, in quanto tali nuove misure rischiano di determinare il collasso dell’intero sistema sociale ed economico, modificando i nostri stessi rapporti relazionali, anche interfamiliari, e di inoculare nella nostra già fragile collettività elementi di disgregazione, di sospetto e di sfiducia che non gioveranno alla maturazione della nostra incerta democrazia ed al rafforzamento delle nostre energie produttive. 

Affermare, come ha fatto il ministro Orlando, che la “confisca per sproporzione” è l’asse ideologico sul quale si fonda l’attuale riforma delle misure di prevenzione, pone i non banali quesiti se questo duttilissimo ed evanescente criterio possa essere il moderno paradigma dell’economia e della circolazione dei beni, ovvero dell’intero assetto costituzionale della proprietà privata, e se sia davvero politicamente sensata l’idea di porre nelle mani della magistratura una simile pericolosissima rivoluzione copernicana

In base alla quale senza processo, senza prove, coniugando il sospetto dell’illecito con quello della sproporzione, si azzerano diritti di proprietà e presunzione di innocenza. 

Tutto questo impone un ripensamento ampio, approfondito e penetrante del problema della tutela dei diritti e delle garanzie, spesso marginalizzato e collocato dalla politica nell’ambito delle questioni “criminali”, e fatto oggetto di banali strumentalizzazioni volte alla sola conquista del consenso.

Un problema che deve essere invece affrontato riaffermando che le garanzie sono un patrimonio costitutivo della intera società e costituiscono un insostituibile fondamento democratico, ricomponendo in un unico complessivo disegno le garanzie di libertà, di tutte le libertà, personali e patrimoniali, nell’ambito di una tutela costituzionale ancora più avanzata e rafforzata. 

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