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June 20 2018
La persecuzione di Rom, Sinti e Caminanti iniziò in Italia ben prima delle leggi razziali del settembre 1938: la tendenza all'isolamento e all'espulsione delle popolazioni nomadi in Europa era proseguita a cavallo tra il secolo XIX e il XX e si tradusse in misure restrittive spesso giustificate dai diversi governi nazionali dai motivi di igiene e di ordine pubblico.
In Italia le popolazioni nomadi erano giunte all'inizio del XIV secolo per effetto dell'avanzata ottomana nei Balcani. Attraverso il porto dalmata di Ragusa le famiglie in carovana raggiunsero le regioni Centro-meridionali e la Sicilia. Già nel '600 furono stilati documenti che testimoniavano i primi elementi di pregiudizio a causa della diffusione della pratica del furto, oltre alle accuse di alchimia e pratica del sortilegio tradizionalmente a carico dei nomadi.
L'"antiziganismo" fu presente in Italia dagli albori del regime fascista, che preparò sin dai primi anni una serie di misure restrittive nei confronti di Rom e Sinti, stimati approssimativamente attorno alle 95.000 presenze sul territorio italiano. L'accelerata verso la persecuzione vera e propria sarà impressa dalle leggi di Pubblica Sicurezza del 1926, ed ebbe come primo provvedimento quello dell'identificazione sulla base delle teorie criminologiche allora dominate dalle idee lombrosiane, con la schedatura fatta sullo schema antropologico della classificazione in "tipi criminali".
Prima della deportazione vera e propria degli zingari, le autorità italiane cercarono di ridurre l'ingresso e il transito delle carovane sul territorio nazionale. Una delle prime misure restrittive fu la limitazione del rilascio di permessi di circolazione e dei documenti di transito, parallelamente all'obbligo di segnalazione alle locali autorità di Pubblica Sicurezza del percorso delle carovane. Nell'agosto 1926 una circolare del Ministero dell'Interno diramò testualmente la volontà del governo fascista di voler procedere con "l'intenzione di epurare il territorio nazionale dalla presenza di zingari, di cui è superfluo ricordare la pericolosità nei riguardi della sicurezza e dell'igiene pubblica per le caratteristiche abitudini di vita". Le normative prevedevano l'espulsione dal territorio nazionale, pratica non semplice per la difficoltà di identificazione per mezzo dei documenti di identità. Il respingimento era inoltre reso ancora più complicato dal fatto che le nazioni confinanti presentavano leggi omologhe a quelle italiane, creando una situazione di impasse attorno alla frontiera.
Per ovviare ai problemi relativi alla nazionalità e alla provenienza dei Rom, le autorità del regime decisero di considerare tutti i membri delle comunità nomadi come "stranieri", prevedendo contemporaneamente l'emissione di decreti di allontanamento e isolamento dei gruppi verso zone e paesi isolati e lontani da "zone strategiche" e dalla popolazione italiana. La schedatura dei Rom prevedeva il fermo di polizia e la permanenza in carcere fino al completamento dei rilievi necessari, tra cui quelli antropometrici. Soprattutto alla frontiera con la Jugoslavia e nei territori conquistati in Slovenia la questione delle espulsioni fu trattata in modo particolare, in quanto la guardia di frontiera del paese confinante era istruita ad usare la forza delle armi in caso di rientro di gruppi di zingari espulsi dall'Italia. In questo periodo non furono infrequenti i rimpatri forzati "clandestini" organizzati dalla Guardia di Finanza attraverso zone di confine non presidiate e spesso impervie, attraverso le quali venivano fatte passare intere famiglie composte per la maggior parte da vecchi infermi e bambini con conseguenze spesso tragiche.
Il passaggio dalle pratiche di schedatura ed espulsione alla vera e propria persecuzione e alla conseguente deportazione coincise con l'ingresso dell'Italia in guerra, quando già da un biennio erano state attuate le leggi sulla difesa della razza. L'11 settembre 1940 il capo della Polizia Arturo Bocchini divulgava una circolare che stabiliva l'internamento delle popolazioni nomadi considerate "minoranza pericolosa", fatto giustificato dal regime come direttamente correlato allo stato di belligeranza del Paese. La classificazione prescindeva naturalmente dalla nazionalità dei membri delle comunità Rom, che venivano considerati potenziali spie ed elementi caratterizzati da cultura "antinazionale".
Durante i primi anni delle persecuzioni emerse un dato particolare proprio nel caso di quei giovani appartenenti alle comunità nomadi iscritti alle liste di leva, che furono richiamati nell'Esercito e parteciparono alle operazioni belliche, mentre i membri delle loro famiglie venivano deportati. I campi di concentramento riservati agli zingari in Italia furono 5. I tre più importanti erano concentrati nell'Italia centro-meridionale: Boiano e Agnone (Molise) e Tossicia (Abruzzo). Ampiamente discrezionali erano le motivazioni degli arresti e delle deportazioni, condotti anche a seguito di semplice delazione o per atteggiamenti ritenuti genericamente sospetti. Le condizioni di vita nei lager erano estreme. Mancavano tutti i servizi essenziali (in molti casi anche i letti) ed erano caratterizzati da grave sovraffollamento. Le condizioni riservate agli zingari erano le peggiori a causa di un sentire diffuso (e condiviso dalla maggior parte degli italiani) che riteneva le comunità nomadi dotate di una maggiore resistenza e spirito di adattamento a condizioni estreme per la natura di girovaghi e per l'abitudine a scarse condizioni igieniche. L'isolamento dei Rom fu stabilito anche per "riguardo" alle altre categorie di detenuti italiani, mentre un'altra peculiarità della deportazione dei nomadi fu determinata dal fatto che a differenza degli altri prigionieri (politici o per reati comuni) furono rinchiuse nei campi intere famiglie, situazione che escludeva ogni forma di assistenza esterna da parte di familiari in libertà. Ad aggravare la situazione della detenzione contribuì l'altissima percentuale di minori (oltre il 50% del totale dei prigionieri) che presentavano gravi patologie legate alla malnutrizione. Il regime studiò anche una forma di sussidio da elargire ai capifamiglia, che si rivelò assolutamente insufficiente ad alleviarne il martirio. Relativamente migliore fu all'inizio la condizione dei nomadi nel Nord Italia, in quanto la mancanza di campi di concentramento impose alle autorità di concentrare gli "stranieri sgraditi" in strutture dismesse, dove furono oggetto di qualche sporadico episodio di solidarietà da parte della popolazione civile. L'ultima azione del fascismo nei confronti dei nomadi riguardò un pallido tentativo di scolarizzazione dei bambini nei campi di concentramento, attraverso l'istituzione di scuole che, ben lontano dal prevedere forme di integrazione con i coetanei italiani, miravano piuttosto all'indottrinamento nel nome del fascismo e dell'italianità che le stesse autorità del regime avevano negato con la deportazione.
Alla caduta di Mussolini il 25 luglio 1943, il successivo Governo Badoglio negò la scarcerazione dei Rom, così come dei comunisti e degli anarchici. La fine dei lager per i nomadi fu segnata dall'armistizio. Due giorni dopo la resa, il 10 settembre 1943 fu ordinata la liberazione di tutti i detenuti del fascismo compresi gli zingari, alcuni dei quali raggiunsero le file della Resistenza. Nell'Italia settentrionale la nascita della Repubblica Sociale segnò il proseguimento dell'olocausto dei nomadi, con il concentramento dei superstiti nel campo di Gries (Bolzano) in attesa di trasferimento nei lager nazisti.
Dopo la guerra fu difficile stabilire l'esatto numero di vittime delle persecuzioni nei confronti dei nomadi, anche per la mancanza di istituzioni atte a quantificare gli esiti dell'olocausto Rom (Porrajmos in lingua romanès) e per il proseguimento delle persecuzioni anche nel dopoguerra in particolare modo nei paesi dell'Europa orientale. In linea generale è accettato il dato che stima in circa 220.000 le vittime della deportazione, circa il 25% della popolazione nomade complessiva presente in Europa tra le due guerre.