Roberto Brazzale e Laura Strati
Industria

«Il made in Italy si tutela rinnovandolo di continuo»

Il primo documento che racconta la storia di Brazzale - la più antica impresa familiare italiana del settore caseario - risale al 1650. «In quel testo si parla della divisione di un gregge di 90 pecore tra i due discenti diretti» spiega Roberto Brazzale, oggi alla guida di un’azienda che vanta un fatturato di circa 230 milioni di euro ed è presente in ben 54 paesi nel mondo.

Cosa significa essere parte di un’azienda in attività da otto generazioni?

«È da un lato un privilegio, dall’altro un onere. Abbiamo una visione molto diversa rispetto a un’azienda manageriale. All’interno di Brazzale esiste una fusione più pronunciata con l’elemento comunitario, ovvero si è molto più consapevoli del fatto che l’azienda sia un’organizzazione dove noi siamo titolari, protettori del bene, ma al centro ci sono le persone. È come se Brazzale fosse un villaggio di Asterix che va avanti con la sua vita ma aggiornandosi col mondo che ci sta intorno. Per noi è nobile ciò che dura, perché serve per produrre benessere e dare sicurezza a tutte le famiglie coinvolte. Aggiornarsi è fondamentale. Io promuovo una visione a lungo termine e una cultura di mercato. Noi non possiamo essere duraturi, solidi e sereni senza accettare nuove sfide e restare aggiornati sui tempi. Ed è questo su cui abbiamo puntato negli ultimi anni».

Ponendo una particolare enfasi sul tema della sostenibilità…

«Quello è derivato. Nel 1989, con il collasso del Patto di Varsavia si sono rese disponibili delle aree straordinarie per fare agricoltura. L’economia è stata completamente stravolta e abbiamo avuto la possibilità di accedere a mercati diversi - migliori - per la nostra attività. Dopo tanto studio, tanti esperimenti e tentativi abbiamo raggiunto dei risultati soddisfacenti. Il prodotto è più buono di quello che facevamo prima e siamo riusciti a investire su progetti verdi, impossibili in Italia per la mancanza di terreno disponibile. Così dando vita alla nostra filiera ecosostenibile abbiamo avuto l’idea di riforestare i pascoli per il bilanciamento del carbonio. E lo abbiamo realizzato facendo cose semplici, trovando soluzioni che spesso si trovano sotto il naso, senza aspettare un input dalle istituzioni. L’obiettivo sostenibilità 2030 per noi arriva 30 anni in ritardo».

Qual è il vostro rapporto con le istituzioni?

«Eccellente, perché quando non è necessario ci ignoriamo. Io non amo aderire agli standard di impresa istituzionalizzati. Non per snobismo, ma perché sono superati. Il biologico? È vecchio di 50 anni. Le Dop? Sono penalizzanti per il prodotto. La più grande certificazione di qualità è apporre il proprio nome sul prodotto».

Come ha affrontato l’emergenza sanitaria?

«Seguendo le massime di saggezza dei nostri avi. Loro sapevano che bisogna tenere i piedi per terra perché anche quando tutto va bene, le cose possono cambiare in un secondo. Le generazioni precedenti hanno fatto fronte a carestie, guerre e catastrofi. Noi abbiamo commesso un po’ un peccato di eccesso di fiducia negli ultimi anni. Con questo non voglio sminuire quanto accaduto. A marzo ci siamo trovati in una situazione che nessuno avrebbe mai predetto, nemmeno in un libro di fantascienza. Il nostro asset principale, ovvero che ogni sette ore circa chiunque nel mondo ha fame, ci ha permesso di limitare le perdite, traslando la nostra produzione all’uso per retail».

Qual è il ruolo del digitale nella sua azienda?

«L’uso della rete per metterci in contatto con i nostri clienti e cercarne di nuovi è sicuramente uno strumento interessante, ma se parliamo di e-commerce, non funziona per il nostro settore. Nei nostri punti vendita in Repubblica Ceca abbiamo offerto opzioni di delivery ma i nostri clienti non hanno voluto rinunciare all’esperienza del negozio, al piacere di vedersi di fronte tutto quel cibo meraviglioso. Acquistare è quasi un rito, e i numeri in crescita rispetto allo scorso anno lo dimostrano».

Oltre l’Italia e la Repubblica Ceca, quali sono i mercati più importanti per voi?

«Spagna, Inghilterra, Francia, Germania. Siamo forti anche in Cina dove abbiamo una nostra società commerciale e anche un piccolo laboratorio per i nostri freschissimi, impossibili da importare. È ripartito anche il Medio Oriente. Il nostro burro, unico nel suo genere, ci sta dando grandi soddisfazioni anche in paesi impensabili. Così come il Gran Moravia, il nostro grana, che vende in tutto il mondo. Il bello dei prodotti italiani caseari è che non sono prodotti fini a se stessi, sono ingredienti, che si adattano a qualsiasi piatto, specialmente pasta e pizza».

L’idea del made in Italy è ancora un grande traino per molti paesi.

«La nostra tradizione è un patrimonio incredibile. La cucina italiana resta sempre la più sana, abbordabile e varia».

Spesso si parla di falsi o meglio dei prodotti «italian sounding». Pensa che il made in Italy vada tutelato in qualche modo?

«Se avessimo salvaguardato i freni a tamburo oggi non avremmo l’abs. Trovo sia assurdo che un prodotto debba essere tutelato. Si tutelano i monumenti, qualcosa che ha fragilità. Se un prodotto ha fragilità ci penserà il mercato. In fondo, quando si parla di tutelare qualcosa quello che veramente si vuole salvaguardare sono gli interessi di un determinato gruppo di persone. Gli italiani ancora non hanno capito che non esistono falsi. Ci siamo auto limitati, sancendo che solo un prodotto della tradizione italiana preparato con ingredienti di origine italiana sia davvero made in Italy. Esistono prodotti “italian sounding” perché con la nostra visione attuale non abbiamo abbastanza materia prima per rispondere a una domanda enorme».

Come viene percepita un’azienda familiare, tipicamente italiana, nel resto del mondo?

«Il nesso tra azienda e famiglia, specialmente nell’alimentare, è sinonimo di massima qualità. Pensiamo a Barilla e Ferrero. Anche noi abbiamo scelto 20 anni fa di tornare a dare risalto al nome Brazzale, dopo aver utilizzato per anni “Alpilatte” che era un po’ il trend negli anni Settanta, nel periodo Parmalat. Un episodio che ricordo in merito alla percezione di un’azienda familiare nel mondo è il World Forum a Seoul cui sono stato invitato cinque anni fa. Parlavo di spirito familiare e c’erano tutte queste persone che mi guardavano con incredibile attenzione, perché loro conoscono solo grandi corporazioni come Samsung e Hyundai. Un altro esempio interessante è la Repubblica Ceca. Il comunismo ha distrutto la tradizione, la piccola proprietà contadina e rurale, e oggi si trovano a guardarci con ammirazione perché sono un popolo di imprenditori alle prese con il primo passaggio generazionale. In un dibattito con Briatore qualche giorno fa ho poi sottolineato il mio dissenso verso la sua affermazione: “Il nostro problema sono tutte quelle piccole realtà familiari”. Le nostre imprese di famiglia sono un valore immenso, ma devono sottostare alle regole di mercato, non cercare protezione nelle istituzioni».

Avete appena annunciato una partnership con la campionessa lunghista Laura Strati in vista Tokyo 2021. Come è nato questo progetto unico nel suo genere?

«Laura ci ha chiamato e ci ha offerto di lavorare per l’azienda in cambio di un supporto per realizzare il suo sogno olimpico. Con il rinvio di un anno si era trovata senza sponsor e noi abbiamo deciso di accompagnarla durante quest’anno e mi auguro anche oltre. Laura è una persona brillante e abbiamo così deciso di inserirla nel nostro team commerciale. Ci auguriamo che quando concluderà la sua carriera agonistica, entrerà in azienda a tempo pieno».

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