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Il mare sta male

Il mare non ha muri, dobbiamo superare l’idea dei confini nazionali; serve un’azione di cooperazione tra Paesi per risolvere un problema comune”. Sono le parole usate da Antonio Errico, presidente dell’Associazione Magna Grecia Mare, da anni impegnato nella salvaguardia e protezione dell'ambiente, sullo stato di salute dei mari italiani.

È una sfida globale quella che siamo chiamati a giocare. È di sviluppo sostenibile che parliamo quando ci chiediamo cosa fare perché il nostro mare si ripopoli. È uno dei 17 gol del programma di azioni sottoscritto dalle Nazioni Unite e approvato dall’Assemblea Generale dell’ONU: Gol numero 14, Conservare e utilizzare in modo sostenibile gli oceani, i mari e le risorse marine.

Come si tutela il mare?

“Proteggendolo, recuperando e ripristinando gli ecosistemi, contrastando gli effetti negativi provocati dai cambiamenti climatici, l’inquinamento proveniente dalle attività dell’uomo e le pratiche di pesca intensive”.

Il mare, oggi, come sta?

“Dalle nostre parti si salva ancora ma in assoluto non sta bene. Preoccupa soprattutto il dato della temperatura dell’acqua. A 30 metri di profondità è arrivata a 26°, dovrebbe essere molto più bassa. Le cause sono molteplici, note a tutti e fuori controllo. Serve sviluppare una maggiore consapevolezza, ricordando sempre che tutto ciò che l’uomo fa ha delle ripercussioni, è lui il responsabile dell’inquinamento luminoso e di quello acustico. Penso all’importante lavoro che stanno facendo al Centro Recupero Tartarughe Marine (CRTM), a Calimera, in provincia di Lecce. Uno dei centri più accreditati in Italia, chiamati a controllare e proteggere i nidi anche dalla curiosità dei turisti. Sapete qual è stato uno dei più grossi problemi da risolvere per questi esperti? La luce, artificiale. Dovevano mascherare la luce della strada o delle passerelle, costruite spesso senza guardarsi intorno. Quando si schiudono le uova, le tartarughe vanno verso la luce della luna ma spesso erano fuorviate da quella dell’entroterra. Vuol dire che invece di andare verso il mare, vanno verso la strada. La luce serve anche a catturare al largo il pesce ma non è più una tecnica efficace, oggi che la luce artificiale è onnipresente anche in mare e sulla costa. E poi c’è il rumore dei motori che hanno preso il posto delle vele. Un tempo i pescatori erano attenti a non disturbare i banchi di pesci che si avvicinavano a terra per riprodursi. Oggi quella sensibilità si è persa”.

Soluzioni?

“Occorre aumentare la conoscenza sulle dinamiche che governano il mare, attivando percorsi di formazione che inizino a sensibilizzare i più piccoli. Parliamo di educazione civica che esce dai libri di testo per farsi conoscenza vera. Oggi, più che mai, siamo noi che decidiamo l’equilibrio che la natura avrà, peccato che sarebbe perfettamente in grado di trovarlo da sola”.

Consapevolezza non sempre fa rima con coerenza. È il caso della pesca a strascico, tanto demonizzata, eppure…

“Verissimo. Siamo consapevoli del fatto che la pesca a strascico è distruttiva per il mare, perché non fa selezione dei pesci che cattura, eppure la prima cosa che chiediamo quando arriva il cameriere al tavolo è una frittura di paranza. Sapete la rete a strascico da chi è trainata? Da una paranza. Innalziamo cartelli sul divieto della pesca a strascico ma siamo i primi consumatori dei suoi prodotti. Quando chiedi una triglietta, una seppiolina, un merluzzetto, quel diminutivo lì sta a dire che quel pesce lo hai preso prima del dovuto dal mare. Se non riusciamo a capire che è necessario che il pesce arrivi ad una maturità tale da potersi riprodurre prima di poterlo pescare è difficile cambiare le cose. Siamo sempre noi i responsabili”.


(Museo di Tricase


È una questione legislativa?

“Le regolamentazioni ci sono, continua a mancare la conoscenza. Se sapessimo come funziona il mare riusciremmo probabilmente ad essere più attenti e partecipi alla sua tutela. Smettiamo di pensare che il mare appartenga a qualcuno. Non puoi ergere muri nel mare. L’acqua si muove, tutto si muove. Porto Museo a Tricase, unico esempio, non solo in Italia, di "musealizzazione" di un Porto, nasce per eliminare l’idea del confine, del mio, del tuo. Oggi ospita una sede Internazionale, un modello per il Mediterraneo e per il mondo. E cos’è il Porto se non una infrastruttura umana dove i popoli si incontrano e si scambiano merci e idee? È un modo diverso di approcciarsi. La storia racconta altro rispetto alle chiusure alle quali spesso ci adagiamo. Occorre avere un orizzonte visivo a 360°, ricordandoci sempre che siamo donne e uomini di mare e di terra. Dovremmo poi essere in grado di guardare oltre, coltivando la curiosità, andando a fondo alle questioni. Perché solo così si intuisce la vera essenza delle cose.

E se aumentassimo le riserve marine?

“Stiamo lavorando a qualcosa di molto importante. Il Ministero dell’Ambiente si è già mosso, l’iter è partito. Parliamo di quella che sarà una delle più grandi aree marine protette d’Europa e si estenderà da Capo d’Otranto al Capo di Leuca, con i suoi 100 km di costa, 260 Km² di superficie totale e undici Comuni coinvolti (59mila abitanti). Siamo nel cuore del Mar Mediterraneo, laddove si trova un hotspot di biodiversità con 17mila specie marine. Sono tanti gli enti coinvolti, a partire dall’Università del Salento e dal CIHEAM, il polo destinato alle attività di cooperazione scientifica, salvaguardia delle biodiversità, degli habitat marini e costieri. Sarà importante dialogare con i nostri dirimpettai, con la Grecia, la Croazia, l’Albania. È l’unico modo per salvare il nostro mare. Collaborare”.

Il cambiamento climatico cambia anche il pesce che arriva in cucina

“La tropicalizzazione dei nostri mari ha portato ad un cambiamento di fauna, è per questo motivo che oggi nei nostri mari si trova in abbondanza il Pesce Pappagallo o il Pesce Serra, carnivoro e dannoso per i nostri mari, perché mangia tutto ciò che incontra”.

A parlare è Stefano De Pascali, chef e co founder della Masseria Caronte. Siamo a Vernole, a pochi da Lecce e dal Mar Adriatico. Il pesce lo lavora ogni giorno nella sua cucina e le conseguenze del cambiamento climatico sono sotto i suoi occhi.

“Se penso solo all’ultimo periodo è stato devastante l’impatto del granchio blu, è colpa sua se oggi non si trovano più vongole o lupini di mare. Non è roba nostra, è figlia del cambiamento climatico. Al momento ho scelto di non servirlo al ristorante anche se costa poco perché ce n’è tanto. Ha poca carne, sarebbe perfetto principalmente per dei fondi, delle bisque”.

Come sta il mare?

“Siamo gente che vive queste acque da sempre. Nessuno lo conosce come noi. Come sta? Stava meglio prima. La parte adriatica meglio di altre zone anche perché ci sono pochi pescherecci, con una percentuale bassissima di quelli con le reti a strascico, colpevoli di deturpare i fondali; a Gallipoli le cose stanno meno bene, basti pensare che il Gambero Viola viene pescato esclusivamente con reti a strascico”.

Il pesce si trova?

“Si trova sempre meno, il nostro non è più un mare pescoso come un tempo. Vanno diminuendo le varietà di pesci ai quali siamo abituati mentre assistiamo inermi all’ingresso di nuove specie che non sempre fanno bene ai nostri mari, perché vanno a competere con le specie autoctone, alterando gli equilibri ecologici”.

Di cosa stiamo parlando precisamente?

“Parliamo di fatti. Per un periodo i saraghi sono stati immangiabili, colpa della Caulerpa cylindracea, un’alga arrivata nel Mediterraneo negli anni '90 attraverso il canale di Suez. Anche la carne del pesce appena pescato risultava gommosa, quasi immangiabile. Un cliente non informato imputava il tutto alla freschezza del pesce, invece era freschissimo. Prima colpiva un pesce su venti, negli ultimi 5/6 anni, uno su sette. Poi c’è stato il problema del sovra sfruttamento dei ricci, in alta stagione erano talmente richiesti dai turisti da non lasciarne più nel mare ai saraghi e alle orate dei quali se ne cibavano. Quei pesci hanno provato ad adattarsi al nuovo ecosistema marino non sempre con buoni risultati. In cucina arrivavano dei pesci con la pancia piena di alghe e non per scelta, per necessità. Perché non avevano altro da mangiare. Speriamo che il fermo biologico sia sufficiente a risanare la situazione”.

Per Alessandro Coppola, discendente di una famiglia di pescatori, oggi testa e anima della Taverna del Porto di Tricase, nel cuore della penisola salentina, il problema è legato ad uno dei sette peccati capitali: la gola.

“È oggettivo che il mare sia in sofferenza, è sotto gli occhi di tutti. Il pescato scarseggia in diverse aree del Mediterraneo, scordiamoci le quantità che avevamo anche solo 10 anni fa. Si facevano pescate di ricciole da un quintale al giorno a barca, oggi è inimmaginabile un simile scenario”.

Di chi è la colpa?

“Tutto è legato al senso della misura che abbiamo completamente perso, partendo dal presupposto che le difficoltà che ci troviamo ad affrontare sono conseguenza delle nostre azioni. Nonostante il fermo biologico dei ricci, la gente continua a richiederli. Lo stesso discorso tecnicamente vale per le ostriche di fondale, specie autoctona che edifica habitat che sostengono la biodiversità marino-costiera. Per tracciabilità e per etica non dovresti averle in carta ma la gente continua a richiederle e spesso prenotano un tavolo solo se certi prodotti sono disponibili. È difficile ristabilire il senso della misura quando si ha a che fare con uno dei sette peccati capitali: la gola. Vi ricordate la moda dei datteri? Poi c’è stata quella delle ostriche rosse. Oggi un imprenditore consapevole è colui che forte di un’etica, una cultura e dei principi, riesce a dire no quando un cliente fa delle richieste inappropriate, riesce a valorizzare prodotti meno cool di altri, vedi il pesce azzurro locale e soprattutto prova a fare cultura”.

Manca un sistema condiviso?

“Fino a quando noi ristoratori seguiremo le richieste del mercato sarà difficile che qualcosa cambi. Se devi rispettare il mare devi coalizzarti, fare sistema con i pescatori e trovare una strategia nuova, altrimenti continueremo a perderci come aghi in un pagliaio”.

In Taverna c’è un banco del pesce fresco, ogni giorno. Si trovano specie nuove?

“Le specie definite “aliene”? Nelle reti dei pescatori si, sul nostro banco no. Anni fa abbiamo preso parte ad un momento formativo con la ricercatrice universitaria Serena Perrone del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche ed Ambientali dell’Università del Salento. Studiava come disinnescare i veleni delle meduse per renderle commestibili. Stavamo fronteggiando una vera e propria invasione di meduse, in quel periodo, e oggi siamo in una fase di cambiamento epocale che ci fa andare quasi a tentoni. Il progresso funziona così, per tentativi. Le meduse non le ho mai viste arrivare sui banchi delle pescherie mentre nel frattempo ci troviamo a fare i conti con un’altra invasione, quella del granchio blu come anche l’abbondanza del pesce serra che oggi si trova in tante pescherie. Quest’ultimo era scartato un tempo, perché distruggeva le reti, mordeva il pescato, oggi la gente ha iniziato a richiederlo, anche perché costa poco”.

Soluzioni?

“Come dice un mio caro amico, Antonio Vasile, tecnico del settore ittico, dobbiamo abituarci all’idea di un Nuovo Mediterraneo, in cui consapevoli del fatto che il nostro pescato non basta più, si iniziano a creare dei sistemi di allevamento in mare aperto tracciabili. Non spaventatevi, pensate al massimo che mancano informazioni certe in tal senso per capire quando un pesce allevato è di qualità e quando invece non lo è. A Gallipoli i ragazzi di Reho stanno facendo un lavoro incredibile nel loro allevamento ittico biologico, in mare aperto. Parliamo di spigole, orate ed ombrine che nuotano in profondità, pesci ai quali è dato il tempo di crescere sano, forte e magro. E se fosse questa la soluzione?”.

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