Lifestyle
June 25 2012
Confesso una smisurata, imbarazzante, maniacale passione per i libri di botanica. Cataloghi, erbari, tassonomie, trattati, elenchi, manuali su come costruire giardini e crescere azalee, biografie di giardinieri illustri (?!), schedari illustrati, foto di teche e bacheche contenenti esemplari di piante, fiori, pistilli, petali, corolle, radici, fossili corredati da etichette: pur non capendoci assolutamente niente, non posso fare a meno di dilapidare le mie (ahaha) sostanze nell’acquisto di questa roba.
Fosse per me, e di fatto lo è, ma diciamo: fossi appena più coraggiosa nell’intento di non sprecare questa vita per esempio lavorando, starei tutto il giorno a sfogliare solo quelli. Vorrei chiarire subito: poche cose – e guardate che ci metto dentro i rave, le maratone di salsa & merengue, i film di von Trier, gli aperitivi – mi annoiano tanto quanto la natura. La sua spaventosa uniformità, poi, mi fa scappare dopo tre giorni di «ma che bello», «wow», «ecco…», «un colombo!», «quello cos’è, Elianto?», «aah, che pace». Ma allora, dice, perché questo amore per la botanica? E perché hai comprato i semi di tutte le piante da frutto del reparto «Tanto non te crescono» del supermercato? E perché, pur essendo del tutto inetta a prendertene cura, continui a innaffiare la terra in cui questi poveretti marciscono nella loro potenzialità aristotelica di semi a scapito della tua ridicola selezione artificiale?
Innanzitutto, mi ringrazio per le domande. La risposta a tutte è la stessa: perché tutto ciò è la cosa più distante dalla natura mi sia naturalmente possibile sperimentare.
Vogliate seguirmi.
Se la ragione dell’Illuminismo e la sua meravigliosa esigenza di pulizia (che sempre, noi di Carnation, difenderemo contro gli oscurantismi) aveva riconsiderato lo strepitoso, il bizzarro, il curioso, il fantastico come semplici manifestazioni dell’ordinario, il Romanticismo e altre cose più serie che sono venute dopo (tipo la filosofia di Nietzsche) spalancano le possibilità a (e di) qualcosa di vertiginosamente attraente: l’assurdità della pretesa di conoscere sé stessi, come scrive Goethe in
e l’inanità dello sforzo faustiano della conoscenza come presa totale sul mondo, di cui lui doveva ben intendersi, spingono la curiosità umana non solo in avanti, ma di lato, in mezzo, nell’infra, in quel regno misterioso e, ancora, fantastico, umiliato dalla superstizione e lasciato agonizzante dal totalitarismo ultrapositivistico.
Coloro che Giorgio Manganelli chiamerebbe i «pensosi di sé e della galassia» non meno che della «dolcezza discreta delle foglie» sentono il desiderio di avvicinarsi al respiro minimo delle cose naturali e degli spazi immensi, alle loro vibrazioni, contrazioni e nervature, per la ragione che la natura subordinata all’umano, così come l’umano dispiegato con metodi naturalistici, è sempre deludente.
Ci volevano dei pensosi di sé e delle galassie come il più grande poeta di sempre, cioè Baudelaire, prima e i surrealisti poi per inventare il gioco di trovare analogie tra il mondo naturale, inorganico, vegetale o minerale, e quello organico inteso come ciò che definisce gli esseri viventi: è l’obiettivo del pansessualismo di Bataille & Co.
Le correspondances tra mondi sono infinitamente più attraenti che non le pure descrizioni degli uni e degli altri (anche se un intenditore di perversioni più raffinato di me vi dirà che c’è uno stordimento della pura descrizione che è più forte quanto più questa è fredda e rigorosa, ma insomma). In questa ottica laterale, trasversale e portata alle cambacianze, rientra un’opera delicatamente folle
La Botanica a parallela di Leo Lionni. Questo vuol dire che le piante qui catalogate, e illustrate dall’autore, non esistono se non nello speciale regno del fantastico della sua immaginazione desiderante. È successo questo, dice uno degli esperti citati (mai esistito, ma ritratto in un dagherrotipo): a un certo punto, c’è stata un biforcazione della flora in parallela e comune.
Le piante parallele non le conosciamo perché si sono sottratte al sapere totalizzante dell’Enciclopedia: abitano paesi sconosciuti e lontani, dimensioni di leggenda (c’è anche l’agnello vegetale), possono essere localizzate solo grazie a una parageografia: esse sono, già, fossili di sé stesse.
Piante germoglianti che, lacerate, secernono un latte con proprietà indicibili, alghe e fossili portentosi la cui scoperta è però stata offuscata dall’entrata dei nazisti a Stalingrado, limoni che durante gli esperimenti cambiano la loro texture reagendo come la pelle umana, in un continuo tentativo di sottrarsi alla «linea organica», e alle catene di un sapere che non desidera più che la sua esattezza. Il ficus ama le poesie di Verlaine, mentre la voce di Gigliola Cinquetti indebolisce i garofani.
La cosa che mi piace di più è che il metodo della catalogazione è rigorissimo, scientifico, solido. La sintassi della trattazione, il suo linguaggio, ricalcano con gelida perfezione quello dei trattati di botanica più severi e autorevoli, ma il risultato divertente, straniante, è lo stesso che Borges raggiunge col suo Manuale di zoologia fantastica, la galleria di estraneità impossibili trattate come reali che fa impazzire la semiotica – come impazzisce una panna (lo so che è la maionese a impazzire, e che la panna invece si smonta, ma mi piace di più la panna).
Queste piante parallele sono «ancorate, anziché alla terra, a un tempo inerte»; mentre le piante normali, quelle delle botaniche ufficiali, sono verdi perché il colore testimonia della loro comunicazione costante con la luce, i colori delle piante parallele sembrano sospesi in un’ambiguità onirica, in colloquio col tempo notturno, a cui aspirano. Sono nere, lucide, rossastre, rosa smalto, imitano la notte e gli organi umani, irritano le dita e gli occhi, piangono, si umettano, arrossiscono, sorridono in modo osceno, mordono, strangolano, palpitano, presentano non solo protuberanze, come è delle piante, ma escoriazioni, ferite, lividi. A volte a toccarle si sfarinano, altre volte, addirittura, sono del tutto amateriche, e il loro interno di carne è vuoto.
Se lo scopo delle botaniche ordinatorie è farci conoscere noi stessi, la botanica parallela ha il miracoloso effetto di distrarci da noi, e semmai di farci guardare da un punto laterale estremamente più avvincente. Dopo aver letto questo libro ho capito che la vorace inesattezza con cui accumulo cataloghi, e persino la faticosa memoria dei nomi di alberi e piante, risponde allo stesso bisogno vertiginoso di possibili esattezze che emana dalle sue pagine.
Chissà, magari le mie piante che non germogliano e non danno frutti appartenengono a una botanica parallela, piante possibili in geografie alternative. Magari stanno crescendo in Nuova Zelanda tre milioni di anni fa e ieri saranno del tutto normali.
Questo catalogo coerente e folle, credibile e fantastico, restituisce alla natura la sua libertà di accumulare inutilità, in parallelo col bisogno umano di inventare mostri, ibridi, fantasie. Forse davvero la natura può secernere quel nettare di cui una goccia, ignorata, sfugge al nostro occhio, e si va a piantare, come un seme del male che genera corrispondenze, dove non possiamo ancora vedere.