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Il no di Obama alla Palestina

Barack Obama è rimasto al fianco di Benjamin Netanyahu. Non c'erano dubbi che questo avvenisse, nonostante le tensioni e le divergenze tra i due del passato. Gli Stati Uniti avevano già detto che avrebbero votato contro la risoluzione che concede alla Palestina lo status di "stato osservatore" all'Onu. Nella sua recente visita in Medioriente, Hillary Clinton aveva cercato di convincere il presidente dell'Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen a non compiere il passo, a non presentare la richiesta. Inutilmente. Il leader dell'Anp è andato avanti per la sua strada, forte dei consensi cercati e ottenuti tra i membri delle Nazioni Unite.

Washington ha votato con Israele. Come (quasi) sempre è avvenuto al Palazzo di Vetro. Il Segretario di Stato americano ha definito l'approvazione della risoluzione "controproducente". Un voto che, secondo la Clinton, pone nuovi ostacoli sul cammino della pace. L'amministrazione Obama - che vuole la riesumazione di un dialogo diretto, a due, tra le parti - è sempre stata contraria a "strappi". Pensa che fare delle forzature, degli atti unilaterali possa complicare la situazione, non certamente risolverla. Per questo aveva chiesto a Abu mazen di fare un marcia indietro.

La Casa Bianca e il Dipartimento di Stato sanno bene che questo passaggio irrigidirà le posizioni del governo israeliano. Dopo la guerra di Gaza e in vista delle elezioni del 22 gennaio, Benjamin Netanyahu non potrà certo fare concessioni, o aperture ad Abu Mazen. Se poi, il leader dell'Anp si recherà a Gaza per raccogliere i dividendi della vittoria al Palazzo di Vetro (e tentare di recuperare terreno su Hamas), è probabile che l'atteggiamento i sraeliano diventi ancora più rigido.

E questo sarà un problema anche per l'amministrazione Obama. Perché toglie spazio di manovra, in una regione, dove i problemi sembrano essere sempre più complicati. La priorità di Washington è riconquistare quel margine di azione. E questo passa anche attraverso la ripresa di un rapporto con Benjamin Netanyahu. Per questo, dopo le divisioni e gli screzi dei mesi passati con il primo ministro israeliano, il presidente americano ha deciso di voltare pagina con lui.

Questa la ragione per cui Barack Obama si è schierato senza se e senza ma con Israele nella recente guerra di Gaza e poi ha inviato la Clinton per arrivare a un cessate il fuoco, mediato grazie all'aiuto del presidente egiziano Mohamed Morsi.

Sono state mosse fatte per rassicurare Netanyahu sul fatto che la sua amministrazione è vicina al suo governo. Lo scopo è quello di (ri)conquistarne la fiducia, in modo tale da riuscire a parlare con lui e raggiungere dei compromessi utili per la pace nella regione. Obama dà ora a Netanyahu in attesa di ricevere qualche cosa in cambio in futuro. Oltre alle ragioni della storica alleanza tra i due paesi, il voto contrario degli Usa alla risoluzione Onu sulla Palestina è da interpretare in questo senso: un altro segnale di vicinanza di Obama a Netanyahu.

Nei prossimi mesi, però saranno molte le scelte da fare. Il Medioriente è in fermento, una polveriera che rischia di esplodere. Il presidente Usa sa che per arrivare a una composizione si dovranno tenere insieme tutti i pezzi. Con il pragmatismo che lo contraddistingue, è consapevole del fatto che in diplomazia è importante riuscire ad accontentare (quasi) tutti. Per questo, quell'atteggiamento di adesione (totale) alla causa israeliana  mostrata in queste settimane potrebbe cambiare. Gli Usa vogliono rimanere nella cabina di regia. Cercando di mettere tutti le tessere del mosaico al loro posto. E tra queste, c'è anche il voto dell'Onu sulla Palestina. Obama non lo voleva, ma ripartirà da lì per tentare di trovare un accordo tra israeliani e palestinesi. Sperando che Benjamin Netanyahu - dopo le prove di fedeltà date - abbia fiducia in lui.

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