News
October 12 2018
Paolo VI e monsignor Oscar Ornulfo Romero santi. Entrambi canonizzati lo stesso giorno, domenica 14 ottobre 2018 – e benedetti dallo stesso pontefice, papa Francesco, loro grande estimatore da sempre. Alleati da vivi ed ora santi insieme dopo una lunga vita vissuta tra gioie e tanti dolori. Gioie in verità pochine a parte l'amore che nutrivano per la Chiesa di Cristo che servirono con devozione fino alla fine.
Dolori, invece, tanti, alcuni drammatici, come il crudele assassinio di cui monsignor Romero vittima il 24 marzo 1980 mentre celebrava la Messa nella sua cattedrale di San Salvador per mano degli squadroni della morte che, per conto di latifondisti e politici corrotti, lo misero a tacere perchè difendeva “troppo” poveri, contadini ed oppressi. Crudele martirio che per Romero segnò il punto di arrivo di un percorso fatto di spine, incomprensioni e rimproveri da parte del successore di Paolo VI, Giovanni Paolo II che, mal consigliato dalla Curia vaticana, lo isolòritenendolo troppo vicino alle istanze dei rivoluzionari comunisti.
Di altra natura le spine di Montini che, soffrì profondamente per le critiche ricevute per la contestata enciclica Humanae Vitae che proibì l'uso della pillola anticoncezionale. Ma anche per l'assassinio del suo amico Aldo Moro per mano delle Brigate Rosse e per le critiche di cardinali un tempo suoi amici per alcune sue importanti scelte riformatrici, rivela il cardinale Giovanni Angelo Becciu, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi.
"Paolo VI certo non era il Papa del sorriso, ma – rivela il porporato - aveva una serenità interiore che gli permetteva di affrontare tutte le situazioni, anche le più difficili e amare, come l'appello alle Brigate Rosse per salvare Aldo Moro... Furono tante le incomprensioni che Montini ebbe con i suoi più stretti collaboratori, in particolare con il cardinale Sunens, suo amico che gli contestava la lentezza con la quale venivano applicate le riforme del Concilio. E con il cardinale Tisserant che gli rimproverò pubblicamente di aver escluso gli ultraottantennni dal Conclave”. "Paolo VI – ricorda ancora Becciu - ha conosciuto personalmente i grandi drammi del XX secolo: le due Guerre Mondiali, i sistemi totalitari del fascismo, del nazismo e del comunismo, e poi la violenza estrema del terrorismo. Ma non mancarono le spinose questioni anche all'interno della comunità cristiana: gli anni dell'immediato post-concilio furono i più difficili e dolorosi del suo pontificato...”.
Per Romero si può parlare di vera e propria Via Crucis wojtyliana ricostruita per la prima volta da padre Leonardo Sapienza, stretto collaboratore di Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Bergoglio, Reggente della Prefettura della Casa Pontificia, nel libro “Paolo VI e monsignor Romero” (Edizioni Viverein). Una attenta biografia che racconta l'intesa che intercorse tra l'arcivescovo e papa Montini, a partire dallo storico discorso in difesa di campesinos e poveri sudamericani tenuto da Paolo VI in Colombia il 23 agosto 1968:“Esortazione – scrive padre Sapienza, tra i più documentati biografi di Paolo VI – ripresa da monsignor Romero nel suo servizio pastorale tra i poveri”, per difendere dalla violenza governativa contadini e uomini di Chiesa, tra i quali padre Rutilio Grande, amico di Romero, assassinato barbaramente.
Ma contro il vescovo si scagliò il nunzio apostolico che stilò duri rapporti in Vaticano presentandolo come pericoloso presule vicino alla Teologia della Rivoluzione e ai rivoluzionari comunisti. Tuttavia Paolo VI non lo abbandonò mai, ricevendolo sempre in Vaticano per incoraggiarlo ad andare avanti a nome del Vangelo.
Ma con l'elezione di Giovanni Paolo II per Romero le porte del Vaticano si chiudono. I rapporti di Romero da “caldi ed incoraggianti come furono con Paolo VI” diventano – rivela padre Sapienza - “freddi e scostanti, all'inizio, con Giovanni Paolo II”, che prima di concedergli udienza gli fa fare una lunga anticamera. Di fronte alle evasive risposte della Curia Romero si fa persino “raccomandare”. L'udienza ci sarà il 7 maggio 1979, ma il vescovo ne uscirà distrutto, specialmente quando alle sue denunzie sulle persecuzioni e sugli assassini di poveri e preti, si sente rispondere dal papa “prudenza...non dividere la Chiesa...non esagerare con le denunzie pubbliche”.
“Anche io desidero tenere unita la Chiesa – replica Romero – ma l'unione non può essere solo simulata, essa si deve basare sul Vangelo e sulla verità”. E mentre gli mostra la foto di un prete assassinato si sfoga: “Guardi, Santo Padre, come hanno sfregiato il suo volto...ce lo hanno sfregiato così crudelmente e hanno detto che era un guerrigliero!”. “Per caso non lo era?”, la fredda risposta del papa, mentre gli dice che nella diocesi di San Salvador “arriverà un amministratore apostolico Sede Plena”, vale a dire un commissario a tempo intederminato per bloccare Romero, che obbedisce piangendo. “Il Romero che esce dall'incontro con Wojtyla – scrive Sapienza – è un uomo umiliato, addolorato, confuso. L'udienza si concluse senza risultati per Romero che era venuto a Roma alla ricerca di sostegno, consolazione o consigli, e se ne tornava in patria disilluso e frustrato”.
Papa Wojtyla però 9 mesi dopo si ricrede in seguito all'assassinio del presule. E il rimorso è cocente. Non a caso nel marzo del 1983 quando visita El Salvador in piena guerra civile prega sulla tomba del vescovo malgrado il divieto del governo per “motivi di ordine pubblico”. “Dentro queste mura – spiegherà il papa – riposano i resti mortali di monsignor Romero, zelante pastore che l'amore di Dio e il servizio ai fratelli portarono fino al sacrificio della vita in forma violenta, mentre celebrava il Sacrificio del perdono e della riconciliazione”.
Elogio post mortem di un martire che in vita non era stato creduto dal papa, la voce dei poveri sudamericani Oscar Arnulfo Romero, definito da Sapienza “il primo martire del Concilio Vaticano II” e che la Chiesa significativamente ha elevto agli onori degli altari da santo santifica insieme al suo papa protettore, Paolo VI.