April 09 2013
Il sonno di una regione
Tommaso Giancarli
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A margine del terribile avvenimento di Civitanova Marche, ho sentito l’altro giorno al tg regionale il sindaco di quella città parlare del funerale e del comportamento dei suoi concittadini in quell’occasione. Abbiamo letto e visto tutti il resoconto dei media sulle contestazioni e su quella che è stata definita piuttosto unanimemente come “la rabbia della folla”.
Il sindaco, mentre l’intervistavano, sembrava sinceramente e profondamente toccato. Quello che ha detto è stato, in breve, che i contestatori, i rumorosi, quelli che hanno insultato, erano una minima frazione dei partecipanti alla cerimonia (“una decina di persone”), mentre la stragrande maggioranza aveva tenuto il contegno appropriato a un funerale. E ha aggiunto, il sindaco, che è dei civitanovesi e dei marchigiani serbare il rispetto e il silenzio che si debbono in certe occasioni; ma non mi è stato chiaro se lo dicesse come un dato di fatto o come una speranza.
Siamo ancora, noi marchigiani, quelle silenziose e frugali creature descritte nei secoli dai viaggiatori e dagli economisti? O tutto è cambiato, e anche noi siamo ridotti al rancore e alla frustrazione che si fanno solitudine e urla? In fondo sono mutate moltissime cose, negli ultimi due decenni. Non viviamo più, ad esempio, in un mondo in cui il lavoro e il sacrificio garantiscono da soli un certo benessere e una certa stabilità per le generazioni a venire; e questa è purtroppo anche la tragica consapevolezza che devono aver maturato i coniugi suicidi.
D’altra parte, è normale e naturale che le cose cambino con lo scorrere del tempo; e non si vede perché non possano modificarsi anche fattori solo apparentemente immutabili come l’indole di un popolo. Non è di questo che bisogna preoccuparsi, e non credo in effetti che il sindaco di Civitanova temesse una mutazione genetica di noi marchigiani: i marchigiani, e chiunque altro, possono essere così come sono ora o in tutt’altro modo, e andrà bene comunque. Quello in cui invece dovremmo aver fede, e difendere ognuno secondo i propri mezzi, è che continuino ad esistere i marchigiani, ossia una comunità salda e coesa. Perché in tempi come questi si fa presto a passare da una società a una folla di individui soli (o di clientes, o una plebe); come esiste il rischio, in termini più generali, che una democrazia difettosa divenga una oclocrazia.
Tutto questo, è ovvio, non vale solo per gli abitanti di una piccola regione italiana. Perché non esiste pensiero progressista, e non esiste progresso, senza la consapevolezza che la società è una moltiplicazione e non una somma di uomini e donne, e che l’allentamento di una comunità non rafforza i singoli individui, ma li rende schiavi del privilegio (del suo mantenimento, chi è nato fortunato; della sua rincorsa, chi è nato senza). E quello non sarebbe un cambiamento neutro, ma un precipitare in un abisso che ci illudevamo di aver lasciato, grazie al lavoro silenzioso dei nostri antenati.
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