Lifestyle
March 20 2023
«Chiedo scusa per il leggero ritardo, lo confesso: dovevo tirare fuori il tè del pomeriggio, non potevo rimandare altrimenti sarebbe diventato amaro». Ci mancherebbe, gli rispondo, sono stati solo due minuti di attesa e quello del tè è un rito che non ammette errori. Scoprirò poco più tardi che per Harry Miesbauer, austriaco ma ormai italianissimo, il rigore, la meticolosità e la coerenza fanno parte di lui, della sua indole, della sua formazione e del suo approccio al lavoro. Iniziato, del resto, alla Skidata di Salisburgo, il colosso che sviluppa le apparecchiature adibite alla gestione e al controllo degli accessi sulle piste da sci (tramite lo skipass) e nei parcheggi aeroportuali, parchi di divertimento, stadi, complessi fieristici (tramite il ticket a striscia magnetica) in cui Miesbauer, ingegnere meccanico, all’età di 26 anni è già a capo dell’ufficio tecnico e sviluppo. «Sbagliare non era contemplato: anche solo un piccolissimo errore di calcolo avrebbe comportato problemi enormi a tutti i dispositivi nel frattempo consegnati in tutto il mondo. Un impegno di meccanica precisissima che ha forgiato il mio metodo di lavoro: è fondamentale, lo ricordo sempre a me stesso e al mio team, stare molto attenti a non commettere sbagli in fase di progettazione perchè questo significherebbe grandi problemi dopo. E correre ai ripari non è mai la soluzione migliore». A proposito di virate, di correzioni di rotta intendo, come avviene il passaggio da quella prima boa austriaca ai campi di regata in qualità di progettista nautico?
«Ho sempre avuto la passione per le barche a vela, l’ho ereditata da mio padre, che mi portava con lui sul Lago di Traunsee, nell’Alta Austria, a quindici chilometri da casa, dove ho fatto il mio primo corso alla scuola del cantiere Frauscher. Quindi le regate in Soling, poi in Tornado e un po’ su tutte le derive e, via via, in ogni classe e competizione internazionale. Negli anni in Skidata mi dividevo tra ufficio e regate. Oltre al lavoro, per me esisteva solo la vela. Ragazze pochissime. Divoravo Seahorse, che all’epoca trovavo solo nell’edicola della stazione di Salisburgo. Iniziavo a sfogliarlo ancor prima di risalire in auto e un giorno del 1995 catturò la mia attenzione un annuncio dell’Università di Southampton che promuoveva il corso di laurea in Yacht Management. Cominciavo ad essere un po’ stanco del mio lavoro: in azienda, con un grado più alto del mio, c’era solo il proprietario. Sapevo che non avrei avuto ulteriori possibilità di crescita, con l’unica prospettiva di rimanere lì sino alla pensione. Incuriosito da quella pagina, chiamai per chiedere informazioni. Fecero loro qualche domanda a me e, intuiti i miei interessi, mi proposero il corso di laurea a loro avviso molto più adatto e stimolante: quello in Yacht Design.
DALLA SKIDATA DI SALISBURGO ALL’UNIVERSITÀ DI SOUTHAMPTON
Lasciato il lavoro, strapagato, partii per Southampton. Deciso a non perdere tempo, pensai di inviare nel frattempo il mio c.v. ai vari cantieri, supplier, studi di progettazione dalla Finlandia sino alla Nuova Zelanda, per iniziare, parallelamente allo studio, a lavorare in estate e aprirmi così la strada futura. Confidai a un mio collega di corso, italiano, che nessun suo connazionale mi aveva ancora risposto. Mi chiese tramite quale canale li avessi contattati. Risposi, da bravo austriaco, via posta. Ma come? Domandò stupito. Si sa che in Italia la posta non sempre arriva, devi chiamare!». Seguì il suo suggerimento? E, soprattutto, chi scelse di chiamare? «Lo studio Brenta. Mi rispose Lorenzo (Argento, ndr). In quel caso le Poste funzionarono: aveva ricevuto, e apprezzato, il mio c.v. Mi disse di richiamare la settimana successiva perché aveva appena parlato con un’altra persona che, forse, sarebbe potuta restare solo sei mesi. Sette giorni più tardi esordì chiedendomi “Quando puoi essere qua?” Mi esortò a terminare il corso in Yacht Design in fretta perché avevano bisogno di me in studio».
HARRY MIESBAUER, L’ARRIVO A MILANO: DA BRENTA A MANI FRERS E RITORNO
Fu così che, durante l’estate del 1997, Mr Harry Miesbauer iniziò la sua attività in uno degli studi di progettazione più autorevoli e impegnati nel panorama internazionale. «Arrivai a Milano per entrare da loro in pianta stabile l’anno successivo, una settimana dopo la laurea. Il primo lavoro cui mi dedicai fu Kenora, blue water fast cruiser di 32 metri di Wally varato nel 1999. Rimasi con Luca e Lorenzo per circa due anni e mezzo». Sino al giorno in cui un’altra telefonata, questa volta non effettuata ma ricevuta, portò Miesbauer a lavorare gomito a gomito con Mani Frers – figlio d’arte e già nel design team Prada -, cui l’imprenditore svedese Jan Stenbeck aveva affidato la direzione del team di progettazione di Victory Challenge, il consorzio che aveva fondato nel 1999 e di cui prese poi le redini il figlio Hugo dopo la prematura e improvvisa morte del patron, avvenuta poco prima dell’edizione della Coppa America del 2003. «Mani sapeva che ero da Brenta, ci incontravamo spesso al Jamaica (storica bohéme ambrosiana di artisti e intellettuali, ricordo tra me), punto di riferimento a Milano di velisti e progettisti che lì si ritrovavano per l’aperitivo. Con lui, chiamato ad affiancarlo nella progettazione delle barche degli svedesi, lavorai anche per Amer Sports One, uno dei due yacht di Nautor Challenge (quello timonato dal neozelandese Grant Dalton, ndr) impegnati nell’edizione 2001/2002 della Volvo Ocean Race, e per alcune barche da regata, essendo questo l’ambito di cui si occupava principalmente lo studio di Milano, lasciando invece il grosso della progettazione di quelle di serie e one off da crociera al team in Argentina». Immagino che il capitolo Coppa America sia stato foriero di stimoli professionali importanti… «Ero fortunatissimo perché coinvolto in un team molto piccolo, di cinque, massimo sei, professionisti. Con Mani Frers, che era concentrato sulle performance delle barche, ero perfettamente a mio agio. Mi lasciava oltretutto spazio e libertà. Mi riferisco ovviamente alla progettazione, cui dedicavamo tutti massima concentrazione e dedizione. Ai tempi, le regole prevedevano che il team progettuale dovesse operare nel Paese del Sindacato, ma della Svezia, in quel periodo, non ho visto nulla: eravamo sempre in studio, lavoravamo come dannati. A casa, da quell’esperienza, non ho quindi portato con me le immagini di quel paesaggio, di quel Paese, ma un bagaglio significativo di esperienza nell’approccio al progetto di una barca veloce. Sono ancora maniaco del peso, tanto che con l’armatore dello Scuderia 65 (il custom yacht ad alte prestazioni di Adria Sail vincitore del Golden Design Award 2020-2021) ne parlo tuttora infinite volte. Peso e baricentro sono fondamentali: una volta messi a posto, metà del lavoro è fatto». Dal 2004 al 2007 il progettista torna a lavorare nello studio che aveva segnato l’inizio della sua vita in Italia. «Con Luca e Lorenzo eravamo rimasti in ottimi rapporti ed essendo vicini di casa – ho sempre vissuto in via Solari, a due passi dallo studio Brenta di via Salaino – capitava di incontrarci al bar dove eravamo soliti fare colazione». Non sarà stato lo storico e famoso Jamaica, osservo a voce bassa, ma anche a quell’indirizzo di progettisti e velisti di valore se ne vedevano diversi. «Una mattina Luca mi chiese di passare in studio perché aveva bisogno di parlarmi. Non di lavoro, mi assicurò. Restai con lui e Lorenzo per altri tre anni…».
LA NASCITA, A COMO, DI HARRY MIESBAUER YACHT DESIGN
Arriva l’ora dell’attività in proprio e dell’apertura dello studio Harry Miesbauer Yacht Design. Perché proprio a Como? I locali di Milano l’avevano stancata? «In realtà i ritrovi del classico e insuperabile aperitivo preserale sono stati tra le prime cose ad avermi colpito una volta arrivato a Milano. Quei buffet allestiti ad arte non si dimenticano e, a volte, un po’ mi mancano. Como, tuttavia, offriva la giusta dimensione a chi, come me, è abituato a viaggiare molto per lavoro e a trascorrere tante ore in studio. Raggiungo più in fretta gli aeroporti, non vivo più nello smog, ho il Lago di fronte e la grande città a mezz’ora di treno, che poi era il tempo che la mia ragazza di allora, che da Vienna si era trasferita da me a Milano, risparmiava per raggiungere Zurigo, dove lavorava». L’impegno professionale contempla tanto l’attività diengineeringquanto quella legata alloyacht design. Cosa, del suo lavoro, la gratifica maggiormente? «In passato, quando mi dividevo tra studio, regate e carriera da avviare, avrei risposto: voglio, devo, lavorare almeno una volta in Coppa America. “Done!”, direbbero a questo punto gli inglesi. Oggi sono più interessato alla parte estetica, a sviluppare nuove forme, nuovi contenuti, ma mai fini a sé stessi o al proprio bisogno di essere notati. Dico sempre ai miei ragazzi: “Diverso non è meglio. Meglio è meglio”. Dobbiamo realizzare cose belle perché ci sono tantissime cose brutte al mondo. Quando si commissiona e si acquista una barca, si commissionano e si acquistano esclusivamente emozioni. Ritengo, ad esempio, assolutamente insensato, quando non controproducente, pretendere di spiegare, come sono soliti invece fare i designer tedeschi o austriaci, perché quel nuovo modello di auto, moto o barca ha un bel design. Quando devo spiegare perché una cosa è bella ho già sbagliato. Entrano nei dettagli, illustrando le ragioni di ogni singola scelta stilistica e decorativa, colore compreso, e parlano con la testa. Ma la barca la immagini, la progetti, l’ammiri e la scegli unicamente con il cuore. Te ne sei innamorato? L’acquisti. Non ti piace, ne fai a meno. Quando la casa del Cavallino svela l’ultima Ferrari, rimani a bocca aperta o esclami: “Accidenti, che bella!”. Flavio Manzoni non starà mai lì a spiegarti perché…».
Di fronte a quale barca, Harry Miesbauer ha esclamato “Accidenti, che bella!”? Non le chiedo, ovviamente, il perché.
«Concettualmente mi piace lo Swan 80 così come interessante era il Nacira 69 che traeva ispirazione dagli Imoca 60. Ci sono poi due icone con cui sono cresciuto e che non posso non citare: il Wallygator II e lo Stealth. Due imbarcazioni molto innovative per l’epoca e tuttora straordinarie, eleganti, semplicemente belle barche». E tra le sue, una in particolare? «La Scuderia 65, che sin dai primi schizzi ha conquistato l’armatore. La soddisfazione più grande mi è arrivata proprio da lui che un paio d’ore fa mi ha confidato che l’altra notte non riusciva a dormire perché doveva assolutamente sfogliare ogni rivista di vela per vedere quali mezzi navigano oggi, voleva avere il quadro completo, fare raffronti. Ha concluso la telefonata dicendomi: “Harry, non ho trovato una sola barca bella come la mia!”». Per un progettista, uno yacht designer, direi che non si può chiedere di più.
“L’INCONTRO” CON ANTONIO VIVALDI
«Quando un armatore innamorato della propria barca, magari a distanza di tempo, continua a dirti “guarda che bella quando entra in marina…” significa che sul fronte design hai fatto bene il tuo lavoro». E che non hai commesso errori in fase di progettazione…
«L’eleganza, l’equilibrio delle forme, il rispetto delle proporzioni sono immortali. Me lo ha ricordato Vivaldi con Le quattro stagioni, un’opera che ha segnato la storia della musica e che ognuno di noi ha ascoltato chissà quante volte. Quella notte di circa tre anni fa ero in studio, dovevo consegnare una presentazione. Quando mi capita di lavorare ad oltranza, cerco la compagnia della radio, della BBC in particolare, che a quell’ora trasmette parecchia bella musica. A un certo punto mi stoppo e mi dico “Caspita, che bravo questo Vivaldi!”. Lo ascolto con più attenzione del solito, cerco immediatamente informazioni su di lui, scopro che quell’opera è stata pubblicata nel 1725. Mi chiedo e domando poi a mio fratello Herman, che è un compositore, come sia possibile che a distanza di tutto questo tempo si continui ad ascoltare Le quattro stagioni senza mai annoiarsi, incantandosi ogni volta. La mia teoria mi porta a pensare che dipenda tutto dalla sua eleganza, dalla sua raffinatezza dalla A alla Z». Tesi avvalorata da Herman Miesbauer? «Mio fratello mi ha spiegato che Antonio Vivaldi, con quell’opera, era avanti anni luce rispetto ai suoi tempi e che in quel componimento, contraddistinto anche da passaggi molto difficili, non c’è una nota fuori dagli schemi, dall’armonia. Quella notte Vivaldi mi ha offerto uno straordinario esempio di equilibrio, coerenza stilistica e ordine, confermandomi che anche nel design, a prescindere da cosa si stia disegnando, le proporzioni sono fondamentali».
L’ARRIVO IN FRAUSCHER: GALEOTTA FU LA VELA
A proposito di cose belle con una lunga tradizione alle spalle: Frauscher nel 2027 si troverà di fronte una torta con cento candeline. Cosa significa per lei, oltretutto austriaco d’origine, essere parte della squadra? «Mi riempie d’orgoglio. Mio padre e il padre di Michael e Stefan andavano insieme in barca. Io, come dicevo, ho fatto il mio primo corso di vela da loro. Stiamo parlando di un marchio storico, di persone che sanno esattamente quello che fanno. È anche per questo che quando una decina di anni fa Michael mi chiese un progetto per una nuova barca, dopo aver dato per scontato – sbagliando – che volessero tornare alle barche a vela, fui assalito da una certa apprensione. L’ultima mia a motore risaliva ai tempi dell’Università e rovinare quel rapporto di quarant’anni proprio non mi andava. Fortunatamente quel primo progetto, il Frauscher 858 Fantom, di cui sviluppai le linee di carena, fu un grande successo e da allora continuo a collaborare, con orgoglio, con la famiglia Frauscher e con il bravissimo Thomas Gerzer (responsabile della produzione e sviluppo, ndr) che, oltre a essere animato da una passione pazzesca e da una scrupolosità estrema, è un altro fermo sostenitore del fare le cose bene subito. È un approccio di grande responsabilità, che paga sempre».
È giunta l’ora del tè. Lo sorseggiamo sintonizzandoci sulla BBC? Non è notte, ma potrebbe trasmettere Le quattro stagioni.