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December 20 2016
Berlino. Il cuore dell’Europa. La Chiesa del Ricordo. La sofferenza di una storia. Gradualmente sembra di scivolare nella notte della memoria. E in Europa la memoria è sempre gravida di brutti ricordi. Perché poi è Natale e non c’è tempo migliore per la vendemmia terroristica.
Perché il Natale è una festa cristiana e il terrorismo ha una matrice jihadista islamica. Perché a Natale le famiglie sono unite e nel Nord Europa le città sono illuminate dai mercatini, che sono tanti piccoli grandi bersagli senza possibile difesa. L’accoltellatore solitario, il kamikaze fai-da-te, l’emulo del camionista di Nizza, sono le schegge impazzite dell’universo jihadista, strumenti minimi ma micidiali di una propaganda globale.
Lunedì 19 dicembre il terrorismo ha indossato la maschera del Tir stragista, colpendo la capitale più importante d’Europa. Un colpo al cuore. Loro, i terroristi, portano in Europa la guerra che stanno perdendo in Siria, Iraq e Libia.
I nostri foreign fighter che li affiancano e sono partiti a decine, a centinaia dalle nostre capitali, sono decimati, molti non potranno rientrare, morti in combattimento o bloccati da controlli più rigorosi sulla strada del ritorno. Ma per quanti sono andati a combattere nelle lontane terre del Califfato, altrettanti o forse più aspettano nell’ombra il momento della nostra disattenzione, della guardia prima o poi abbassata, per assestare un altro dei loro attacchi stragisti. Un altro Bataclan, un’altra Nizza, un’altra Berlino.
Lo stesso giorno della strage in Germania, ecco l’ambasciatore russo in Turchia, l’uomo del ritrovato dialogo tra Mosca e Ankara, schiantarsi a terra colpito alle spalle da un poliziotto infedele all’urlo “Allahu Akhbar!”, Dio è grande. Forse la vendetta di Al Qaeda per i bombardamenti russi su Aleppo Est. Nel quadro confuso di questo inizio di Millennio, il variegato fronte jihadista si lancia disordinatamente contro un altrettanto variegato fronte laico, cristiano, occidentale, ortodosso, a sua volta attraversato da conflitti intestini come quello che oppone oggi la Russia all’Europa e agli Stati Uniti (almeno fin quando non si sarà insediato Donald Trump alla Casa Bianca).
C’è chi dice e scrive che gli attentati di Natale sarebbero soltanto i colpi di coda del mostro moribondo, dell’Isis che perde terreno dentro i confini di sabbia del Califfato. Ma è proprio questo il momento del pericolo, di quella che si potrebbe definire una tempesta perfetta. Il frutto insanguinato di una miscela esplosiva: la disperazione assassina del jihadismo ferito forse a morte, gli effetti di lungo termine della propaganda dell’Isis sulla Rete, l’imprevedibile raptus solitario dei terroristi fai-da-te, sia rifugiati dell’ultimo anno sia figli di seconda e terza generazione di famiglie musulmane integrate nel tessuto economico ma non in quello culturale dei Paesi europei.
È un tempo confuso quello attuale. Uno scenario di caos crescente che è difficile governare. Il terrorismo sta mettendo alla prova la nostra stessa identità. Quello che gli israeliani vivono da decenni, la coesistenza con il terrore e con chi ti vuole morto e cancellato dalla faccia della terra, è quello che in parte stiamo vivendo oggi noi europei. Il Medio Oriente si è spostato in Europa.
Ma è attraverso la sofferenza provocata dal terrorismo minuzioso dei jihadisti di casa nostra che si forgia il senso di una comune appartenenza europea. La guerra che ci fa il terrore ci aiuta quanto meno a prendere coscienza della nostra cittadinanza europea. La solidarietà che proviamo con i morti di Nizza, Berlino, Bruxelles, è la dimostrazione che il nostro è, nel bene come nel male, un destino comune.