News
June 03 2014
Gioisce, Giorgio Napolitano. Stringe mani anonime, riverisce coetanee, accarezza i volti degli intimi. Soprattutto, ostenta occhi pieni di soddisfazione. Un po’ è per la tiepida serata romana del 26 maggio; abbastanza per la visione di Cesare Battisti-l’ultima fotografia, l’incantevole docufilm di Clemente Volpini; molto perché il presidente rivela fisicamente la luminosità del vincitore. Le europee hanno infatti consacrato soprattutto il suo trionfo. Il trionfo di "Re Giorgio I".
Lo certifica pure la corte varia e variegata accorsa all’Auditorium all’indomani delle elezioni. Alla destra del sovrano sono sistemati due ministri del Partito democratico, Andrea Orlando e Roberta Pinotti, anche loro giubilanti. Dietro c’è Gianni Letta, cordiale come sempre. Ma Napolitano si volge principalmente a sinistra. Lì siede l’amico di una vita, Emanuele Macaluso, mai tenero con Matteo Renzi. Ciononostante, per il re-presidente conta il risultato.
A Macaluso ribadisce i concetti espressi precedentemente nel backstage (ai vertici Rai) e il giorno dopo, al Quirinale, nel dialogo con lo stesso Renzi: "L’Italia ora è centrale in Europa e tra la gente c’è fiducia sul futuro". Poi uno sguardo di complicità e la frase sottovoce: "Quanta fatica in questi anni, Emanuele. Però ora il Paese finalmente è forte". Chissà, vedremo, speriamo. Di sicuro forte, anzi fortissimo, è soprattutto lui: Napolitano.
Duemilanovecentotrenta giorni dopo l’elezione al Colle, insinuandosi nella debolezza dei partiti, Giorgio I ha chiuso il suo disegno triangolare. Ai vertici più bassi dell’equilatero sono, per motivi opposti, Silvio Berlusconi e Beppe Grillo. Sulla cima svetta invece Matteo Renzi, che della strategia napoletaniana è "l’utile idioma" (copyright: i corridoi del Quirinale). Il premier parla bene, ha il talento del venditore, copre i difetti della sinistra storica. È, insomma, "il migliorista 2.0", il volto contemporaneo della corrente di Napolitano nel Pci, storicamente minoritaria e segnata da un noto "complesso di infallibilità". Per una sorta di nemesi storica, il renzismo ha immediatamente prodotto la scomparsa della cosiddetta "Ditta", la parte del Pd composta dai leader postcomunisti culturalmente avversi al migliorismo (da Massimo D’Alema a Pier Luigi Bersani).
Su Berlusconi e Grillo, invece, il lavoro di Napolitano è stato più faticoso e complesso. Renzi compare soltanto come utilizzatore finale, alle europee, di una strategia lunga quasi 3 anni. Per intenderci: come certificato a cavallo tra il 2013 e il 2014 da testimoni diretti e autorevoli, davanti al leader di Forza Italia la "saracinesca" (che Renato Brunetta, altri forzisti e anche osservatori indipendenti definiscono "il complotto") viene alzata già nell’estate del 2011.
È allora che Napolitano incontra a più riprese Mario Monti per sondare la sua disponibilità a prendere la guida del governo italiano. Fa nulla che a Palazzo Chigi sieda ancora Berlusconi: cancellerie e poteri economici europei spingono il bocconiano. Il 9 novembre Giorgio I nomina Monti senatore a vita e una settimana dopo lo promuove premier e ministro dell’Economia. Al Cavaliere non resta che assecondare il piano, nonostante la rinuncia possa chiudere la sua avventura politica: lo dicono i fatti ed è scritto nei sondaggi.
E invece alle elezioni del febbraio 2013 la coalizione di centrodestra ottiene un lusinghiero 29,18 per cento. Cosa ancora più importante, Berlusconi risulta decisivo sia per rieleggere Napolitano il 20 aprile 2013 sia per formare il governo di Enrico Letta 8 giorni dopo. Grillo parla di "colpo di Stato", porta in piazza migliaia di persone urlanti ed è forse per questo che il re-presidente alza temporaneamente la saracinesca antiberlusconiana. Poi, però, l’8 maggio la Corte d’appello di Milano condanna il Cavaliere a 4 anni di reclusione per il processo Mediaset. E il 1° agosto la Cassazione, a udienze accelerate, conferma la pena. Il Colle coglie un’altra buona occasione per chiudere definitivamente la serranda. Il 23 novembre 2013, dopo una serie di contatti, Napolitano certifica che mai concederà la grazia a Berlusconi: "Non ci sono le condizioni" sentenzia. Punto e basta.
La nota ufficiale delude i vertici di Forza Italia, vicini a Giorgio I per la battaglia ipergarantista combattuta nel processo sulla presunta trattativa Stato-mafia. Nell’inverno 2012, per evitare che le sue intercettazioni vengano rese pubbliche, il presidente innesca una bomba legale sul conflitto di attribuzioni, mobilitando il fuoco di fila di giuristi e stampa democratica. Inizialmente era sembrato che Napolitano intendesse imporre un freno generale alle invasioni in campo politico della magistratura. Per gli azzurri, il presidente alla fine ha semplicemente tutelato se stesso, infischiandosene di un Berlusconi che rappresenta, bene o male, un terzo degli elettori italiani. E rimane, peraltro, un potenziale padre costituente.
Forse è proprio per il rifiuto di ogni accordo istituzionale che la campagna di Napolitano contro Grillo è stata verbalmente più cruenta. Due frasi, in particolare, pesano tantissimo. Una risale all’8 maggio 2012. All’indomani del successo del Movimento 5 stelle alle amministrative, il capo dello Stato commenta caustico: "Di boom ricordo quello degli anni Sessanta, altri non ne vedo". Il 20 maggio 2014 il presidente va anche oltre, entra a gamba tesa a 5 giorni dalle elezioni europee proclamando il suo "no a populismi e sterili nazionalismi".
È un appello, di fatto, a ciò che lui considera l’unico voto utile: quello contro i 5 stelle. Giorgio I contribuisce così a un fenomeno che il sondaggista Nicola Piepoli chiama "l’effetto Chirac". Quando "al ballottaggio per le presidenziali del 2002 i francesi dovettero scegliere tra il moderato Jacques Chirac e il populista Jean-Marie Le Pen" spiega Piepoli a Panorama "optarono in massa per il primo, inclusi gli elettori socialisti. Da noi, pur di combattere Grillo, i moderati hanno votato Pd. Ma è una circostanza unica, irripetibile".
Fatto sta che Renzi deve molto a Napolitano. E non solo per lo straordinario risultato ottenuto alle europee. Per lui, per il "migliorista 2.0", Giorgio I ha ripudiato il suo pupillo più adorato, Enrico Letta. "Nessuno scossone, il suo governo va avanti" dice Napolitano a Letta, premier in carica, nel pomeriggio del 10 febbraio 2014. In poche ore cambia tutto. A sera Renzi è riservatamente invitato a cena al Quirinale, nell’appartamento privato del presidente. Guarda caso tre giorni dopo, il 13 febbraio, la direzione del Pd sfiducia Letta. E il 22 Napolitano affida a Renzi l’incarico di presidente del Consiglio. Ecco, raccontano a Montecitorio: "Enrico è ancora scosso. Non per Matteo, ma per il cinismo di Napolitano, per lui totalmente imprevisto".
Opportunità od opportunismo, insomma, c’è sempre un labile confine di interpretazione sulle scelte del capo dello Stato. Per dire: il 30 agosto 2013 nomina senatori a vita quattro degnissime persone. Ma sono tutte di area di centrosinistra, utili (secondo i maligni) a sostenere il governo in caso di necessità. E quando Napolitano impone ben 3 premier in 3 anni, lo fa nel sacro nome dell’Italia, ignorando però gli italiani e l’opzione del ricorso al voto. Tuttavia, quello di Napolitano rimane un trionfo. Lo spiegano i dati: il Pd, il "suo" Pd depurato dalla Ditta, è appena finito sopra il 40 per cento dei voti. Chapeau.
Compiuti 89 anni il 29 giugno, trascorso il semestre europeo a guida italiana, nel gennaio 2015 Giorgio I potrà anche abdicare. Come nella più pura aristocrazia, ha già designato l’erede: il suo amico Giuliano Amato. Il guaio è che pure altri puntano al Colle, il sintomo sono le interviste post vittoria (superflue) a diversi candidati democratici, Walter Veltroni e Romano Prodi su tutti. E poi a Renzi il preferito di Napolitano proprio non va giù, in privato
lo appella "il Rott’Amato". Eppure c’è da scommettere che il premier fingerà di sponsorizzarlo perché (come diceva qualcuno) "a brigante, brigante e mezzo": significa "usare le armi dell’avversario contro di lui, anche se paiono ingiuste". Quel qualcuno era Sandro Pertini, il presidente preferito dagli italiani. Forse perché non fu mai neppure lontanamente un re.