Il verdetto, Emma Thompson giudice memorabile - La recensione
Difficile pensare a qualcosa di più incantevole e seduttivo della recitazione di Emma Thompson nella parte dell’inflessibile giudice Fiona Maye protagonista de Il verdetto (in sala dal 18 ottobre, durata 105’), girato dal maturo regista britannico Richard Eyre che si rifà a La ballata di Adam Henry (ed. Einaudi, 2014) di Ian McEwan - qua pure autore della sceneggiatura - per proporre un film drammaticamente assai denso, carico di riflessi psicologici e raffinate soluzioni figurative.
Un’anomala visita in ospedale prima della sentenza
Fiona Maye, dunque. Si ritrova ad emettere una sentenza perentoria sull’ancora adolescente Adam (Fionn Whitehead) afflitto da travolgente leucemia: costringendo per legge lui, testimone di Geova come i suoi genitori, ad accettare una trasfusione di sangue che gli salvi la vita ma tradisca la sua fede. La prima svolta della storia avviene quando Fiona visita Adam in ospedale prima del giudizio. Una procedura anomala, del tutto anticonvenzionale. Di sicuro effetto, tuttavia, perché dopo quell’incontro, cui segue la sentenza, la terapia si inizia senza le temute resistenze del giovane.
Groviglio di passioni, drammi e crisi matrimoniali
La seconda sterzata avviene quando il ragazzo, una volta guarito e carico di gratitudine impastata di febbrile - sebbene confuso - rapimento amoroso per Fiona, incomincia a seguirla ovunque implorando affetto; incrinandone a poco a poco, pur senza infrangerla del tutto, la dura scorza di lei che, pure nel rovinoso andare del proprio matrimonio senza figli con Jack (Stanley Tucci), non può e non vuole cedere a quello che sempre più rassomiglia a un intrico del cuore. Non solo per l’abissale differenza d’età che la separa dal giovinetto ma anche per quel groviglio di sentimenti, drammi personali e risvolti morali che in questo quadro di folli complicità preludono poi ad un finale melanconico e a suo modo sublime.
Versi di Yeats, musica di Britten : “Là nei giardini dei salici”
Certo, Il verdetto meriterebbe d’esser visto anche solo per la luce emanata da Thompson, la quale arriva perfino ad esibirsi con voce argentina nello struggimento dei versi di Yeats su Là nei giardini dei salici arrangiati da Benjamin Britten: Nel giardino dei salici ho incontrato il mio amore; / là lei camminava con piccoli piedi bianchi di neve. / Là lei mi pregava che prendessi l’amore come viene, / così come le foglie crescono sugli alberi. / Così giovane ero, io non le diedi ascolto; / così sciocco ero, io non le diedi ascolto. / Fu là presso il fiume che con il mio amore mi fermai, / e sulle mie spalle lei posò la sua mano di neve. / Là lei mi pregava che prendessi la vita così come viene, / così come l’erba cresce sugli argini del fiume; / ero giovane e sciocco ed ora non ho che lacrime.
Se non che la messa in scena del romanzo, già di per sé bellissimo, si offre al puro godimento percettivo nel suo scivolare leggero e nella realtà ovattata di una Londra gravida di tristezza pacata e affetti lacerati suggeriti dalla fotografia umbratile di Andrew Dunn, negli sfondi sonori di Bach, Puccini e Mozart, nel rigore, nella compiutezza e nel pudore della rappresentazione. Non si può chiedere altro al cinema dei sensi.
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