Economia
June 03 2013
UPDATE: Il 3 giugno il gip del Tribunale di Taranto Patrizia Todisco ha decretato l'uso degli impianti dell'area a caldo dell'Ilva sequestrati per inquinamento il 26 luglio 2012, pur confermandone il sequestro. E oggi, 4 giugno, il Governo ha deciso per il commissariamento a tempo sotto la guida del risanatore Enrico Bondi. Sono note per ora positive di quanto sta accadendo all'acciaieria italiana (la più grande d'Europa) che non conosce tregua. Qui la storia di una vicenda che rischia di bloccare un'intera porzione di economia nazionale (e non solo).
--------
Nel museo zoologico di Taranto una delle attrazioni più ammirate è lo scheletro di una grande balena. La prima catturata nel Mediterraneo, dicono. Fu uccisa nel febbraio del 1877: «Inseguita e assediata» ricorda una cronaca d’epoca «fu bersagliata da centinaia di colpi di fucile e di rivoltella. No potendo riprendere il largo, il malcapitato animale tornò indietro e in seguito al lancio di candelotti di dinamite rimase stordito. Ormai esausta, si arenò e fu imbricata con forti gomene».
Sembra un po’ la storia dell’Ilva di Taranto, la più grande industria siderurgica d’Europa con i suoi 12 mila addetti, una gigantesca balena d’acciaio adagiata sulle spiagge del quartiere Tamburi. La Puglia non è l’isola di Nantucket, eppure dal luglio 2012 il giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, come un capitano Achab in toga, è partita a caccia del cetaceo insieme con il procuratore-ramponiere Francesco Sebastio. I due hanno deciso che i fumi velenosi del suo sfiatatoio di metallo vanno spenti per sempre, a costo di chiudere l’azienda. Una guerra tra bene e male che nel 2007 aveva già ispirato una favola per bambini, «Le sirene e il mostro d’acciaio». Banale il mostro, meno il prefatore: era lo stesso Sebastio.
Così da 10 mesi la balena cattiva sanguina sulla costa, bersagliata da provvedimenti giudiziari che ne stordiscono la capacità produttiva. Avviando una complicatissima guerra di carte bollate, Todisco, da convinta paladina della salute pubblica, ha lanciato la sua fiocina nientemeno che contro governo e Parlamento, colpevoli di aver sfornato alla vigilia dello scorso Natale una legge, la 231, che rimetteva all’opera per 36 mesi il polo siderurgico. Sulla Pequod tarantina la cosiddetta norma «salva-Ilva» è stata subito bollata come incostituzionale in quanto retroattiva e quindi in grado di annullare i sequestri ordinati dal gip delle aree a caldo e dei manufatti, ora parcheggiati sulle banchine del porto. Con l’aggravante che quei tre anni di bonus concessi dal potere legislativo, per Todisco, «costituiscono una cappa di totale immunità dalle norme penali e processuali».
Per questo il tribunale in gennaio ha presentato ricorso alla Consulta. Ma senza ottenere soddisfazione: i giudici hanno respinto le questioni di legittimità. Nelle motivazioni si legge che «le disposizioni (della nuova legge, ndr) non cancellano alcuna fattispecie incriminatrice, né attenuano le pene, né contengono norme interpretative e/o retroattive in grado di influire in qualsiasi modo sull’esito del procedimento in corso».
I giudici hanno bocciato anche i sequestri. La Consulta infatti ha stoppato il tentativo del Tribunale di Taranto di bloccare la vendita della merce prodotta prima di Natale: «Distinguere tra materiale realizzato prima e dopo l’entrata in vigore del decreto legge sarebbe in contrasto con la ratio della norma generale e di quella speciale, entrambe mirate ad assicurare la continuazione dell’attività aziendale».
Un argomento che i legali dell’Ilva avevano provato a sostenere in tribunale a Taranto, senza fortuna. Infatti, per i difensori, solo la vendita dei prodotti finiti può consentire di trovare i fondi necessari ad ammodernare e bonificare l’impianto, come previsto dalla nuova autorizzazione integrata ambientale (Aia) rilasciata in ottobre dal ministero dell’Ambiente. Per Marco De Luca, difensore dell’azienda, «non si vuole solamente la chiusura dell’Ilva, si vuole altresì che ciò sia fatto per iniziativa spontanea dell’Ilva stessa». Insomma, la balena deve suicidarsi.
Nonostante la decisione della Corte costituzionale, il 3 maggio scorso Todisco ha respinto l’ennesima richiesta di dissequestro di gran parte della merce, visto che non erano ancora state depositate le motivazioni della Consulta. Eppure, di fatto, i giudici costituzionali avevano già restituito l’Ilva ai suoi padroni, sottraendola al controllo del custode giudiziario scelto dal gip. A dispetto di questo piccolo naufragio le lance del tribunale hanno tenuto la barra dritta e hanno scagliato contro l’azienda-cetaceo un candelotto di dinamite in grado di stroncare pure Moby Dick: il 24 maggio il gip ordina il sequestro preventivo di 8,1 miliardi di euro (l’Imu ne ha fatti incassare all’erario la metà) alla holding della famiglia Riva, la stessa che controlla il pacchetto di maggioranza dell’Ilva spa e che sino a quel momento non era mai stata coinvolta nell’inchiesta.
Scriveva Herman Melville di Achab e del suo odio per la balena bianca: «Se il suo petto fosse stato un cannone, gli avrebbe sparato il cuore». Todisco, più lucida nella pugna, ha optato per il sequestro. Una scelta giustificata in una noticina del decreto in cui scrive, un po’ stizzita, che con la salva-Ilva «il legislatore ha inteso rimettere l’azienda in possesso degli impianti sottoposti a sequestro preventivo e assicurarle la prosecuzione dell’attività produttiva, senza esigere dalla stessa adeguate garanzie finanziarie a sostegno sia del piano di investimenti previsti dall’Aia, sia del pagamento delle eventuali sanzioni amministrative».
Se la politica dormicchia, insomma, la magistratura resta vigile, come un ramponiere in mezzo all’oceano. E quando la balena affiora la colpisce. L’Ilva, scrive Todisco, «ha cagionato e cagiona danni sanitari e ambientali inaccettabili», e poiché non provvede alle «necessarie misure di sicurezza, prevenzione e protezione dell’ambiente», ecco l’esproprio, necessario «per effettuare tutte le opere di risanamento ambientale dello stabilimento».
Il nemico non è più il mostro in sé, ma diventa «il profitto (…) che altrimenti si consoliderebbe nelle tasche degli indagati». Un profitto che, però, nei bilanci non appare. Intanto l’ottantaseienne patròn Emilio Riva resta ai domiciliari, dove è rinchiuso da 10 mesi. Sul suo capo e su quello degli altri indagati pendono accuse odiose, imputazioni da avvelenatori di pozzi. «Intossicare dolosamente cibo e acqua è un reato da tempi di guerra o da attacco terroristico» nota Gian Domenico Caiazza, uno dei difensori degli indagati. Accuse che i legali rispediscono al mittente utilizzando a proprio favore le fiocine degli avversari. Per esempio citano le parole di uno dei periti del gip: «L’Ilva rispetta tutte le prescrizioni dell’Aia; quindi, in effetti, sono le norme vigenti».
Per quanto riguarda le polveri sottili viene scelto un altro avvocato d’eccezione, il rapporto del 2012 di Legambiente sull’inquinamento dell’aria in 55 capoluoghi. Qui Taranto risulterebbe quarantaseiesima, ovvero la nona meno inquinata. Con livelli e superamenti delle soglie assai inferiori a quelle di molte aree del Nord Italia, di Roma o Firenze. Per esempio Milano e Torino hanno oltrepassato i livelli di guardia tra 160 e 130 volte in un anno, contro le 45 della città dei due mari. «È vero che non ci sono centraline dentro l’impianto. Se è per questo non ci sono neppure negli altiforni» taglia corto De Luca. «Quel che conta è misurare l’inquinamento in città e vicino allo stabilimento, e capire se la produzione d’acciaio causi emissioni fuori dai limiti di legge, nuocendo alla popolazione. Per l’agenzia regionale quei limiti non sono stati superati».
Ora, l’Ilva, spiaggiata da 10 mesi, sta cercando di rituffarsi nel mare del mercato. Fiocine di carta permettendo.