Economia
October 28 2016
L’arrivo in libreria del saggio “We wanted workers: unraveling the immigration narrative” (Volevamo dei lavoratori: svelare la narrativa sull’immigrazione), scritto da George Borjas, professore di politica economia e sociale alla Kennedy School di Harvard, è l’occasione per il magazine americano The Atlantic per fare il punto sui costi e i benefici dell’immigrazione negli Stati Uniti.
Borjas sottolinea innanzittutto come, fra il 1970 e il 2015, il valore delle esportazioni e delle importazioni come frazione del Pil degli Stati Uniti è quasi triplicato, passando dall’11 al 30%. Analogamente, anche la percentuale di immigrati nati in altri paesi ed entrati a far parte della forza lavoro americana è triplicata, passando dal 5 al 16%. “Non è sorprendente che l’immigrazione e il commercio internazionale abbiano molto in comune: in entrambi i casi, infatti, stiamo parlando dello spostamento di forza lavoro da un confine nazionale all’altro”.
Perché è chiaro che per produrre un orologio in Cina occorre l’impiego di lavoratori, importando quello stesso orologio è come se si importasse il lavoro grezzo che l’ha prodotto. Quindi, da un punto di vista puramente economico, rispondere al fabbisogno di lavoratori con persone che arrivano da un altro Paese, ha perfettamente senso. Lo ha avuto, per esempio, per la Germania che, a partire dal 1950, ha aperto le porte a “lavoratori ospiti” provenienti dalla Turchia e da altri paesi che, secondo l’autore, hanno contribuito grandemente al miracolo economico post-bellico del paese.
I lavoratori non sono robot
Come ci stiamo rendendo conto, però, i lavoratori immigrati non sono dei robot che occupano un posto vacante in una fabbrica: “Sono persone che si costruiscono una vita nel paese in cui lavorano”.
Nel 2011, infatti, gli immigrati turchi e i loro figli rappresentavano quasi il 4% delle popolazione tedesca. “L’Europa sta imparando a sue spese che l’assimilazione degli immigrati non avviene automaticamente e che fette di immigrati non assimilati presentano delle sfide”, scrive l’autore. Se da una parte vengono in mente le periferie radicalizzate, dall'altra bisogna ricordare che c'è stato un periodo in cui gli emigranti, come quelli passati da Ellis Island, erano portati all'integrazione.
Considerato che, con ogni probabilità, non è più possibile ricreare le condizioni economiche, politiche e sociali nei primi anni del Novecento, bisogna fare i conti con la realtà dell’immigrazione contemporanea. Il tema, sottolinea The Atlantic, è polarizzato su due opposte narrazioni: una parte sostiene che l’immigrazione sia una forza positiva, l’altra è convinta che non porti altro che problemi. “La verità, come emerge dal saggio di Borjas, è che si tratta di un mix di entrambe le cose”.
Alcuni americani, infatti, traggono beneficio dal surplus di manodopera poco specializzata: sono gli imprenditori e le grandi multinazionali, perché per la legge della domanda e dell’offerta, quando molti lavoratori competono per lo stesso posto, i datori di lavoro li possono pagare di meno. Quindi, gli operai e i lavoratori non specializzati sono quelli che risentono maggiormente di questi effetti, perché la competizione per lavoro e salario si fa più intensa.
Ma molti economisti – incluso Borjas – non vedono effetti negativi a lungo termine dovuti all’immigrazione per i lavoratori americani non skillati. Infatti, la fase di difficoltà che stanno attraversando non è dovuta all’immigrazione (che crea anche nuovi consumatori), ma alle dinamiche economiche della globalizzazione, della supremazia degli azionisti e di un debole anti-trust.
Specializzazione uguale integrazione
Le cose sono diverse per i lavori specializzati che contribuiscono in modo più consistente al welfare, ma che sono anche portati a una maggiore integrazione nel tessuto sociale, per ragioni culturali, economiche, linguistiche. Borjas evidenzia una relazione fra provenienza e specializzazione: in base ai dati dell’ufficio statistico americano, nel 2010 gli immigrati provenienti dal Messico e dalla Repubblica Dominicana guadagnavano il 50% in meno dei lavoratori americani, mentre quelli provenienti dalla Germania e dal Canada guadagnavano il 70% in più.
Il limite di questo approccio, secondo The Altantic, è che presta il fianco a una deriva xenofoba e ricorda, per esempio, come l’Immigration Act del 1924 imponesse rigidi limiti all’immigrazione proveniente da quattro paesi europei dispregiativamente raccolti sotto l’acronimo “Pigs”: Polonia, Italia, Grecia e paesi slavi.
È stato solo nel 1965, con il passaggio dell’Immigration e National Act, che gli Stati Uniti hanno eliminato la variabili dell’origine nazionale dall’equazione. “Dobbiamo renderci conto che il sistema che regola l’immigrazione non esiste solo come motore di crescita economica: ci sono altre ragioni per politiche immigratorie più liberali, come il desiderio umanitario di fornire rifugio a persone che fuggono da regimi oppressivi, indipendentemente dalle variabili economiche di questa scelta”, conclude il magazine. Alla fine, promuovere una maggiore integrazione sociale, come il caso dei flussi migratori passati da Ellis Island all’inizio del secolo scorso dimostra, potrebbe contribuire a un risparmio di costi sociali e, dunque, economici.