Economia
August 22 2014
Su un punto concordano quasi tutti: l’Italia si riprenderà solo se la domanda di beni di consumo aumenterà in modo apprezzabile. Solo un aumento della domanda interna, infatti, può convincere le imprese traballanti a non chiudere e quelle che se la cavano a investire. Il problema, però, è come generare tale aumento. Su questo le opinioni divergono. Secondo alcuni la via maestra è un’imposta patrimoniale sulla ricchezza, specie finanziaria, in modo da togliere ai ricchi (che consumano una frazione bassa del proprio reddito) e dare ai poveri (che sono costretti a consumarlo interamente). Secondo altri la via maestra è alleggerire il fardello fiscale delle famiglie del ceto medio basso, e il modo di farlo è di estendere e rendere permanente il bonus da 80 euro, nonostante i dubbi sulla sua efficacia comincino a serpeggiare anche fra chi lo aveva sostenuto a spada tratta.
La prima soluzione (colpire la ricchezza) non fa i conti con la mobilità dei grandi capitali, che volerebbero all’estero e così farebbero diminuire la massa del risparmio disponibile in Italia. La seconda soluzione (puntare sul bonus) elude il problema fondamentale: se le risorse per il bonus (circa 15 miliardi all’anno) derivano da altre tasse o da una riduzione della spesa pubblica l’effetto sulla domanda non può che essere minimo, perché quel che entra da una parte esce inesorabilmente dall’altra; se invece il bonus viene finanziato da un aumento del deficit pubblico, è difficile pensare che i mercati finanziari non ce la facciano pagare sotto forma di un nuovo aumento dello spread, specie se le famigerate riforme strutturali continuano a restare semplici promesse.
Se crediamo che un apprezzabile aumento dei consumi sia una condizione necessaria per uscire dalla stagnazione, il problema diventa: come garantire un simile aumento? Un modo di rispondere a questa domanda è di capovolgerla e chiedersi: ma perché i consumi delle famiglie italiane non riprendono quota?
La risposta che viene subito alla mente è: perché c’è la crisi, e i redditi sono molto diminuiti rispetto al 2007. Però la risposta è incompatibile con i dati. La crisi è esplosa nel 2008 (con il fallimento di Lehman Brothers), ma la prima reazione degli italiani alla crisi è stata di aumentare la propensione al consumo, ossia la frazione di reddito speso. All’inizio del 2008 la famiglia media destinava al consumo l’88 per cento del reddito, 4 anni dopo (inizio 2012) ne destinava il 92 per cento, ossia più di prima: il calo dei consumi, dunque, è stato contrastato da una riduzione del risparmio.
È solo negli ultimi due anni, dalla primavera del 2012 a oggi, che la tendenza si è invertita, e gli italiani hanno cominciato a ridurre la quota del loro reddito destinata ai consumi. Ed eccoci al punto cruciale: che cosa è successo a partire dal 2012? Perché da allora gli italiani si ostinano a risparmiare sempre di più e a consumare sempre di meno? Perché la più volte annunciata svolta, o luce in fondo al tunnel, o ripresa che staremmo per agganciare, non ha invertito la tendenza a consumare sempre di meno e a risparmiare sempre di più?
Una risposta possibile ci viene dalla teoria economica, e in particolare dagli studi di Arthur Cecil Pigou, Milton Friedman e Franco Modigliani. Secondo la visione di questi autori il consumo, oltre che dal livello del reddito corrente, dipende in modo cruciale dalle aspettative di redditi futuri e dal patrimonio. Se per qualche motivo le aspettative di guadagni futuri si deteriorano o il valore del patrimonio si riduce, la gente destina al consumo una frazione minore del suo reddito, ossia fa esattamente quel che da due anni gli italiani stanno facendo. Sembra dunque ragionevole fare questa semplice ipotesi: la ragione per cui nessun politico, nemmeno Renzi con i suoi 80 euro, riesce a rilanciare la domanda di consumo, è semplicemente che la gente si è convinta che le cose andranno male anche in futuro e che il proprio patrimonio si è prosciugato sensibilmente.
Ma chi l’ha convinta, e quando, e come? Qui la risposta diventa facile. La gente ha cominciato a ridurre la propensione al consumo quando, nel corso del 2012, si è resa conto che la risposta chiave del governo Monti alla bufera finanziaria del 2011 era l’inasprimento della tassazione sulla casa. Da allora il prezzo delle case ha cominciato a scendere inesorabilmente, con una perdita patrimoniale per le famiglie che è dell’ordine di mille miliardi, circa metà del debito pubblico totale.
Naturalmente non si può sostenere che tutta la diminuzione del valore delle case sia dovuta all’aumento delle tasse sugli immobili, ma è ragionevole pensare che almeno la metà di esso, diciamo 500 miliardi, sia dovuto a tale aumento: per incassare 10-15 miliardi di tasse in più all’anno, i governi Monti- Letta-Renzi hanno provocato un vero e proprio shock sui patrimoni degli italiani. Nel giro di un paio di anni il possesso di un immobile ha cambiato natura: fino a ieri era un elemento di sicurezza, oggi per molti è diventato un incubo, un fardello di cui ci si vorrebbe liberare prima possibile.
Secondo alcune stime della Banca d’Italia una variazione di 1.000 miliardi del patrimonio immobiliare basta a provocare una variazione di 20-25 miliardi nei consumi annui, e tale variazione è tendenzialmente più pronunciata se è una perdita (come negli ultimi anni) piuttosto che un guadagno (come prima del 2007). È come dire che la riduzione dei consumi legata al crollo dei prezzi delle case vale il triplo del bonus di Renzi.
Se davvero vogliamo che gli italiani riprendano coraggio e tornino a spendere, è giunto il momento di ripensare in modo radicale l’impianto complessivo della tassazione sulla casa.