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August 27 2014
Nonostante gli appelli del governo libico ad interim alle Nazioni Unite per un intervento militare che stabilizzi il Paese e impedisca al composito fronte islamista di prendere il potere la comunità internazionale resta a guardare l’avverarsi delle previsioni dell’Unione africana che nel 2011 ammonì la Nato sostenendo che l’abbattimento con le armi del regime di Muammar Gheddafi avrebbe trasformato il Paese nordafricano in una nuova Somalia.
Il tracollo istituzionale della Libia è ben rappresentato dalla presenza di due governi e due parlamenti. L’esecutivo legittimato dalla comunità internazionale è quello ad interim guidato da Abdullah al-Thani sostenuto dal parlamento eletto con il voto di giugno dominato dagli schieramenti laici e anti islamisti. Governo e parlamento però contano ben poco e sono relegati a riunirsi a Tobruk , a ben 1.600 chilometri da Tripoli ma a soli 150 dall’Egitto dove ministri e deputati potrebbero dover fuggire presto se le milizie qaediste di Ansar al-Sharia dovessero raggiungere la città resa celebre dalle battaglie della seconda guerra mondiale.
Il vecchio parlamento, dominato dai gruppi islamisti, che rifiutò le elezioni e nel febbraio scorso si auto estese il mandato per un anno si riunisce invece a Tripoli dove lunedì ha nominato premier il professore universitario Omar al-Hassi vicino alle posizioni dei Fratelli Musulmani.
La situazione militare è lo specchio del caos politico. A Tripoli le milizie di Misurata e i salafiti riuniti nell’alleanza “Fajr Libia” stanno portando avanti con successo l’operazione “Alba” conquistando buona parte della città e strappando l’aeroporto alle milizie di Zintan. In Cirenaica le cose vanno anche peggio per i militari del generale Khalifa Haftar che in maggio scatenò l’operazione “Dignità” contro gli islamisti ma è stato battuto dalle forze di Ansar al-Sharia, gruppo terroristico che ha conquistato gran parte di Bengasi, controlla Derna e punta su Tobruk dopo aver lanciato un appello all’unità di tutte le forze islamiste del Paese finora respinto dai miliziani di Misurata e dalle altre forze attive in Tripolitania.
Il rischio che la Libia si frantumi in almeno due entità, entrambe sotto il controllo di gruppi islamisti diversi, è quindi concreto ma sembra preoccupare solo i Paesi vicini che ne subiscono direttamente le conseguenze. L’Italia, che già vive l’emergenza determinata dall’ immigrazione clandestina di massa, vede in pericolo i rifornimenti energetici e le attività di oltre 200 aziende attive nella nostra ex colonia mentre Egitto, Tunisia e Algeria subiscono già da tempo le infiltrazioni dei miliziani islamisti e trafficanti di armi dal territorio libico. A sintetizzare l’urgenza di un’azione internazionale ha provveduto a inizio maggio il sottosegretario con delega ai servizi segreti, Marco Minniti, in un’intervista al Sole 24 Ore in cui affermò che restavano non più di sei mesi “per salvare la Libia”.
Secondo fonti d’intelligence aerei e navi carichi di armi e combattenti stanno arrivando da settimane soprattutto nei porti e aeroporti di Misurata e Bengasi grazie ai consistenti appoggi forniti da Turchia e Qatar alla causa islamista. Tra questi vi sarebbero anche molti volontari libici che si unirono al “jihad” siriano contro Bashar Assad e che oggi tornano, da veterani, per sostenere l’Emirato proclamato da Ansar al-Sharia a Bengasi.
Sul fronte opposto non sembrano in molti a voler dare concretamente man forte alle milizie anti islamiste e a Roma come negli altri Paesi occidentali non si registrano per ora iniziative diverse dagli inutili appelli al dialogo anche se si infittiscono le voci di un piano italiano d'intervento.
Il presidente egiziano Abdel Fattah Sisi "ci ha garantito aiuti per il nostro Esercito, addestramento e consulenza" ha dichiarato Abdel Razak Nazuri, il nuovo capo dell’esercito libico dopo una visita lampo al Cairo ma l’impressione è che senza decisi interventi militari esterni il generale Haftar e le milizie di Zintan, che pure hanno stipulato un’intesa strategica, siano condannati alla sconfitta.
Nell’ultima settimana sono intervenuti misteriosi aerei da guerra che hanno colpito in almeno due circostanze le postazioni islamiste a Tripoli. Raid che non hanno mutato la situazione bellica e che il generale Haftar ha attribuito alla sua aviazione dotata però di pochi Mig malmessi non in grado di volare di notte e privi di bombe di precisione. Finora i Paesi occidentali e soprattutto Egitto e Algeria hanno negato ogni coinvolgimento ma ieri fonti anonime statunitensi hanno inaspettatamente smascherato gli autori dei raid attribuendoli ad Egitto ed Emirati arabi Uniti. Prima fonti anonime che hanno parlato con il New York Times
poi dichiarazioni ufficiali di Pentagono e Dipartimento di Stato, hanno lamentato l’impiego di cacciabombardieri e aerei da rifornimento in volo emiratini ed egiziani per incursioni sul territorio libico.
Raid di cui Washington non era stata informata preventivamente. Il Cairo ha smentito con durezza, Abu Dhabi tace e la Lega Araba attribuisce i raid a Paesi non arabi che hanno fatto decollare i jet dalle coste del Mediterraneo. Quello che deve sorprendere è peròp il fatto che Washington abbia criticato le incursioni contro gli islamisti libici nel momento in cui Barack Obama e Bashar Assad trovavano l’intesa per far volare gli aerei americani sulla Siria per combattere lo stato Islamico.
Fonti statunitensi hanno motivato la contrarietà ai raid aerei con il rischio che possano “esacerbare gli animi” ma in Libia ormai è guerra civile e invece di schierarsi contro gli islamisti l’amministrazione Obama sembra invece puntare a favorirli con un’ambiguità sconcertante. Certo l’intelligence americano ha tutti gli strumenti tecnici per tenere sotto controllo i cieli libici ma perché smascherare sui media l’intervento di Egitto ed Emirati che contrastano gli islamisti e non invece il ruolo di Qatar e Turchia che li sostengono?